Heideggeriano per antonomasia
Tutti i grandi filosofi hanno un loro stile, una maniera di strutturare i pensieri che si coagula in certi schemi di scrittura o di ragionamento ripetuti frequentemente all’interno dei testi. Basta pensare a Immanuel Kant, che fa un uso massiccio di espressioni latine atte a riassumere un’intera posizione teoretica, o all’esplosiva e roboante prosa di Friedrich Nietzsche. Alcuni tratti paradigmatici rendono i filosofi inconfondibili e ne costituiscono un vero e proprio marchio di fabbrica. Così, riconosciamo rapidamente che pochi titoli sono “heideggeriani” come quello che il filosofo di Meßkirch pone ad una sua conferenza del 1957: La struttura onto-teo-logica della metafisica (Die onto-theo-logische Verfassung der Metaphysik).
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Il confronto con Hegel
Attraverso il suo tedesco tanto evocativo quanto ghiribizzoso Martin Heidegger ci informa, immediatamente, che «questo seminario ha tentato di dare inizio a un colloquio con Hegel» (in Identità e Differenza, tr. it. G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2009). Siamo davanti all’incontro –che inevitabilmente sarà anche scontro– fra due dei maggiori pensatori della filosofia moderna e contemporanea; espressioni concettuali di epoche, problematiche e stili di pensiero radicalmente diversi ma, nondimeno, determinati ad un reciproco confronto.
La portata epocale, quasi titanica, di questo confronto è dichiarata esplicitamente da Heidegger nell’incipit del testo: «il colloquio con un pensatore può trattare soltanto della cosa (Sache) del pensiero» (ivi., p. 53); aggiungendo poco dopo «secondo Hegel la cosa del pensiero è il pensiero in quanto tale» (ibidem).
Heidegger sa che l’idea di un colloquio con la storia della filosofia a proposito della cosa del pensiero è stata consacrata (appunto, nella storia della filosofia) dallo stesso Georg Wilhelm Friedrich Hegel, esemplare in questo senso è uno dei primi paragrafi delle Lezioni sulla storia della filosofia (Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, tr. it. R. Bordoli, Laterza, Roma-Bari 2013):
Il pensiero, sebbene sia ciò che è essenziale, sostanziale, ed efficace, ha a che fare con un’infinita quantità e qualità d’oggetti. Esso si dà al più alto grado d’eccellenza allorché s’occupa di ciò che è più degno, di ciò che è proprio dell’uomo, cioè dello stesso pensiero: allorché esso vuole se medesimo. Occuparsi di se stesso significa prodursi, trovarsi, e questo avviene solo in quanto esso si produce. Il pensiero è reale solo in quanto produce se stesso mediante la propria attività; esso non è immediato, ma viene prodotto solo da se medesimo. Il pensiero è reale solo in quanto produce se stesso mediante la propria attività; esso non è immediato, ma viene prodotto solo da se medesimo. Il pensiero produce se stesso e ciò che produce: in tal modo è filosofia; il dispiegarsi, il lavoro di questa produzione, di questa scoperta, verso cui il pensiero tende per scoprire se stesso, è l’opera di due millenni e mezzo.
G. W. F. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., p. 3
Heidegger riconosce immediatamente questo debito dichiarando che «Hegel pensa la cosa del suo pensiero in modo appropriato, entrando in un colloquio con la precedente storia del pensiero» (M. Heidegger, op. cit., p. 56 [sintassi leggermente modificata, corsivo aggiunto]). Hegel è il primo, secondo Heidegger, a proporre una cosa del pensiero «in sé storica» (ivi., p. 57); l’intera riflessione hegeliana è un «pensiero che perviene a sé soltanto nel processo del suo sviluppo speculativo» (ibidem) percorrendo, dialetticamente, una serie di tappe conseguenti.
Ma la storia della filosofia di Hegel (dovremmo forse dire «filosofia della storia della filosofia?) non presenta soltanto una cosa (Sache) del pensiero ma anche -dice Heidegger- una massima (die Maßgrabe) ovvero un «modo in cui egli parla con i pensatori che l’hanno preceduto» (ivi., p. 58); potremmo definirlo anche un atteggiamento. Per interagire con Hegel e il suo pensiero, dunque, non sarà solo sufficiente trattare della stessa cosa del pensiero ma farlo anche «nello stesso modo» (ibidem). L’eclettico Heidegger evidenzia, però, una differenza fra lo stesso (das Selbe) e l’uguale (das Gleiche); “parlare” con Hegel nello stesso modo in cui ha parlato Hegel non impone di ripetere Hegel poiché solo l’uguale assorbe e annienta le differenze, lo stesso, piuttosto, le fa emergere (ibidem).
Come è concepibile tutto ciò? In che maniera è possibile costruire un colloquio col passato che faccia emerge la differenza a partire da un discorso impostato nello stesso modo? Heidegger introduce un terzo elemento da tenere in considerazione nel colloquio con Hegel: la decisione (Austrag). Heidegger la chiama una «decisione dell’essere» (ivi., p. 59) e desidera rintracciare gli elementi a partire da cui compierla, in ciò consiste lo scopo del colloquio con Hegel. Affinché ciò sia possibile è necessario riflettere sul carattere della cosa del pensiero, che deve «essere mantenuta nella sua peculiarità costitutiva» (ibidem).
Abbiamo ottenuto così tre fondamentali elementi di analisi: la cosa del pensiero, la massima e il carattere (da cui segue la decisione). Con sorprendente rigore e schematicità Heidegger suddivide questi tre punti in altrettante domande che passa in rassegna una alla volta. Noi intendiamo, qui, riproporre il medesimo schema e ripercorrere le tappe dell’analisi heideggeriana.
1. Qual è, in Hegel e in noi, la cosa del pensiero?
“Per Hegel, la cosa del pensiero (Denken) è il pensiero (Gedanke) in quanto concetto assoluto. Per noi invece, […] la cosa del pensiero è la differenza in quanto differenza“. (ivi., p. 60)
2. Qual è, in Hegel e in noi, la massima che orienta il colloquio con la storia del pensiero?
Su questo punto Heidegger si presenta meno “asciutto” rispetto alla domanda precedente. Il filosofo di Meßkirch ricostruisce il colloquio di Hegel con Spinoza e Kant (presentato nella Scienza della logica) per affermare che –per Hegel– ogni pensatore è dotato di una sua forza che può essere superata (aufgehoben) nel pensiero assoluto presente costruito secondo il celebre meccanismo dialettico-speculativo.
Se la forza del già-pensato è per Hegel cumulativa, nella misura in cui si va a sommare nel complesso movimento di superamento dialettico, per Heidegger (e per la sua epoca) questa forza diventa una sorta di spazio negativo che delimita un «non-pensato» (ivi., p. 62). Secondo questa massima del non-pensato il già-pensato non sarà incluso in uno sviluppo progressivo destinato a superarlo ma diverrà una riserva a partire da cui si delineerà il non-ancora-pensato.
3. Qual è, in Hegel e in noi, il carattere di questo colloquio?
«Per Hegel il colloquio con la storia della filosofia precedente ha il carattere del superamento (Aufhebung) […]. Per noi il carattere del colloquio con la storia del pensiero non è più il superamento, ma il passo indietro (Schritt zurück)» (ivi., p. 63).
Lo scopo di Heidegger
Emerge con vigore, specialmente dai punti 2 e 3, il fine a cui Heidegger mira. Abbiamo affermato prima che Hegel, non solo in quanto “già-pensato” ma addirittura teorico di una visione della storia della filosofia che fa del già-pensato la sua forza cumulativa-progressiva, diventa il principio negativo a partire da cui Heidegger vuole costruire la sua filosofia dell’inindagato tramite il passo indietro.
Nel saggio Il principio d’identità (Der Satz der Identität in M. Heidegger, op cit., pp. 27-53), che accompagna quello precedente, il pensatore afferma che la filosofia nel XX secolo sarà veritiera soltanto «staccandoci dall’atteggiamento del pensiero rappresentativo» (ivi., p. 39). In questo senso siamo chiamati, secondo Heidegger, a compiere un salto via dalla rappresentazione e dall’età moderna. L’idea del salto e quella del passo indietro mostrano bene la maniera in cui, secondo Heidegger, la tradizione viene pensata.
Infatti, è stato proprio Hegel a proporre una visione della storia della filosofia cumulativa (Heidegger la definisce «innalzante-raccogliente» (ivi., p. 63)) basata sulla centralità della rappresentazione, in apertura alle Vorlesungen dice il filosofo ottocentesco: «quel che abbiamo da considerare è la storia: fatti che scorrono dinanzi alla nostra facoltà rappresentativa» (G. W. F. Hegel, op. cit., p. 3)
Così, Hegel diventa il punto di coagulo del pensiero rappresentativo e della storia della filosofia innalzante-raccogliente, che si trovano in corrispondenza reciproca. Parallelamente se, come Heidegger (e la sua epoca), desideriamo andare oltre ciò allora ecco che il salto –via dal pensiero rappresentativo– e il passo indietro –nella storia della filosofia– andranno a braccetto. Il concetto storico-filosofico “Hegel”, pensato come paradigma in cui si raccolgono una lunga serie di tendenze moderne, diverrà il terreno assodato, il trampolino, la parete del canyon da cui compiere il passo indietro e saltare nell’ abisso dell’impensato.
Al giorno d’oggi
Nessun filosofo o appassionato studioso di filosofia intende concedere, al giorno d’oggi, un singolo centimetro alla malata idea nichilista della “fine della filosofia”. Questo vale, per certi versi inaspettatamente, anche per le espressioni più filosoficamente pure del celebre Postmodernismo (con la speranza di sviluppare questo punto in futuro, ci limitiamo a menzionare qui due testi: J. Lyotard, Perchè la filosofia è necessaria, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2013; J. Derrida, Di un tono apocalittico adottato di recente in filosofia, Jaca Book, Milano, 2020).
Heidegger e Hegel adottano due atteggiamenti fra loro in profonda antitesi. D’innanzi a questa grave antinomia, con cui dobbiamo fare necessariamente i conti, possiamo essere certi che vi sia almeno un punto su cui i due autori si accordano: né Heidegger né Hegel credono che la sterile ed arida ripetizione del già-detto sia sufficiente.
Sia che serva da fondamento per l’avvento dell’idea assoluta, sia che funga da punto di partenza per il passo indietro, la tradizione serve sempre per qualcosa, ha un fine ed uno scopo. Perseguire quello scopo, inseguirlo, costituisce un dovere intellettuale da cui non sembra possibile assolversi. D’altronde, se la filosofia non è morta, se essa non può morire, la domanda «come dobbiamo atteggiarci noi, oggi, alla tradizione, alla storia della filosofia?» non è, in nessuna maniera, rimandabile.
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Ammiro la rinuncia allo studio della finanza. Anch’io avrei voluto farlo, ma non sono riuscita.
Complimenti per l’articolo