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Il dramma degli psicologi oggi

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9 minuti di lettura

Le prospettive per un giovane psicologo di fare il suo mestiere non sono rosee. Nessun ente sembra più aver bisogno di psicologi e, così, si riciclano come educatori; vengono inquadrati contrattualmente come educatori anche quelle rare volte in cui la mansione sarebbe da psicologo/neuroterapista/psicoterapeuta. E molti accettano. La condizione per fare lo psicologo sembra essere accettare qualunque condizione contrattuale perfino, talvolta, il lavoro nero. I bandi per posizioni pubbliche sono rarissimi e molto spesso assegnati (anche se nessuno lo dice, tutti lo sanno). Capire come siamo arrivati a questa situazione non è semplice: le ragioni devono ricercarsi nel background culturale per cui le persone non pensano di avere bisogno di uno psicologo e non sanno nemmeno a che serva esattamente, forse, taluni, sono anche delusi da un pregiudizio/background di psicoterapie inefficaci. A ciò si aggiungono fattori economici: se le persone sono costrette a pagarsi di tasca propria lo psicologo, dati i costi elevati delle prestazioni, perché ricorrervi?

Lo psicologo: un mestiere riconosciuto?

La mancanza di investimenti pubblici finalizzati, in qualunque modo, a prendersi cura della salute psicologica degli individui ha portato a servizi pubblici di salute mentale scarsi e scarsamente organizzati per offrire un servizio completo, efficace e adatto alle esigenze individuali. In altre parole è forse possibile, per una persona con un disagio psichico, accedere a un servizio psichiatrico pubblico ma quasi mai un servizio psicologico/psicoterapico, il che significa che lo stato ha optato per finanziare terapie brevi, medicalizzate, che tendenzialmente vertono sulla farmacoterapia, non necessariamente adatte agli scopi.

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Il risultato è che si incrementa, giorno dopo giorno, il precariato del lavoro psicologico e la sua svalutazione in vari termini. Chi vuol fare lo psicologo o lo psicoterapeuta è costretto a lavorare gratuitamente per fondazioni, onlus o perfino enti pubblici i quali, in questo modo, screditano il lavoro dello psicologo e indirettamente promuovono l’idea latente che si tratti di qualcosa di superfluo, secondario, trascurabile, lasciato alla coscienza individuale.

Fare lo psicologo: una questione di pubblicità?

Il giovane psicologo può infine tentare la roulette russa del lavoro in proprio, finendo per chiudersi, solitario, in uno stanzino a caccia di pazienti e con scarse possibilità di relazionarsi in modo proficuo con colleghi (tendenzialmente a pagamento sotto forma di relazioni di supervisione).  Costretto a improvvisarsi markettaro per vendere le sue prestazioni e finisce con l’imitare il collega che rimane comunque (ma questo non lo ammeterà mai) suo rivale (in quanto porta via il paziente pagante). Riducendosi, infine, a mettere sui social le foto dello studio e postare in continuazione frasette filosofiche spicce per fare proseliti in modalità poco originali o dispensare consigli da panettiere, slogan triti e ritriti quanto inutili ad esempio: «pensa alla tua salute psicologica» (non sarà questa frasetta buttata su un social a caso a far cambiare idea ai tuoi amici) o «se sei agitato respira» (poteva dirmelo chiunque). Tutto ciò testimonia che, sicuramente, i social non sono il luogo giusto per dare l’idea della complessità e della necessità del mestiere psicologico eppure tutti ripiegano su essi per farsi pubblicità, credendo che sia l’unica via.

dramma psicologi

Assistiamo a questo fenomeno di deriva della funzione psicologica verso una visione new age che finisce, molto spesso, per far produrre agli psicologi del web una merce. Quest’ultima finisce a essere ben lontana da una seria proposta psicologica di interventi focalizzati sulla persona e prende le sembianze di saggezza spicciola da messaggio su tik tok, da filmino su youtube, da massima copiata senza ritegno da qualche filosofo (senza aver capito il reale senso che questo voleva dare alle sue produzioni) e condivisa sulla baceca di facebook. Il tutto sembra quasi una proposta di costume anziché, come invece dovrebbe essere, un approfondimento delle dinamiche interiori delle persone che sono per natura sempre irripetibili e particolari.

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In fondo, tutto ciò che viene messo a disposizione di un pubblico finisce per essere merce. Il punto non è tanto che non si possa considerare una prestazione che aiuta il benessere delle persone come una merce, ma che non dovrebbe essere ridotta a mera merce, tanto che la sua vendibilità, la sua promozione commerciale possa arrivare a snaturarne le strutture, le finalità, il messaggio di fondo, le modalità.
Fosse anche, semplicemente, snaturarne lo stile o il registro che, più che quello di una fumosa promozione di uno stile di vita dai contorni poco chiari, dovrebbe essere un serio e ponderato servizio al benessere di una specifica persona che si presenta dal proprio psicologo con una specifica problematica. Proprio perché lo psicologo non deve essere il santone della situazione, non deve creare una mistica. Oggi invece sembra esserci un po’ la tendenza a trasformare lo psicologo in mental coach (perché va di moda), come se vendere fosse talmente più importante del contenuto profondo e strutturale del suo lavoro, da far sì che diventi più importante per lui il linguaggio e la modalità della promozione commerciale rispetto ad un auspicabile atteggiamento di maggiore densità contenutistica ed efficacia operativa. Sembra che molti professionisti della salute mentale si siano rassegnati a tutto questo, con la conseguenza che per loro è più importante attrezzarsi per una competizione commerciale anziché battersi per il riconoscimento di una dignità professionale e per l’applicazione di contratti che corrispondono meglio alla finalità diretta della professione e del servizio reso.

C’è da chiedersi se questo non sia un grosso ostacolo: la mentalità di molti psicologi che non li fa concentrare sul problema reale che conosciamo tutti. I fattori in ballo sono troppi e più grandi di loro. Cosa possono fare per migliorare la loro situazione lavorativa? Hanno realmente la coscienza di come il loro lavoro possa impattare sulla salute psicologica delle persone?

In conclusione

Anziché ambire a fare “quello che stanno facendo tutti” sopra descritto, non sarebbe più utile una lotta di categoria per il lavoro-il salario-la dignità professionale (e non solo) prendendo esempio dalla storica battaglia sindacale di categoria dei metalmeccanici? Perché non considerare altre strade anziché svendere professionalità e rassegarsi alla mentalità della vendita senza scrupoli delle prestazioni psicologiche? Che poi i venditori, specie poco esperti, stanno pure sulle balle a tutti.

Erica Boiano

 


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