Il nome di Frankenstein echeggia nelle nostre coscienze come una certezza solida e potente, intoccabile e stereotipata come poche figure sanno essere. Ma, come molte delle convinzioni incrollabili dell’umanità, non è altro che una menzogna.
Fraintendimento mostruoso
Come tremerebbe Mary Wollestonecraft Shelley, autrice dal talento superbo che ha descritto la mostruosità della condizione umana meglio di chiunque altro, nel vedere la sua creatura defraudata della sua dignità suprema, della sua sublime padronanza di linguaggio capace di distogliere lo sguardo dalla sua bruttezza, della sua wertheriana sensibilità.
Tutta colpa del cinema
Ebbene sì, il mostro di Frankenstein, così come concepito dall’autrice, era un poeta, non un’ameba urlante con due chiodi conficcati nelle tempie. Ma cosa ci ha condotto a immaginarlo così? Come in molti altri casi, è stato il cinema.
Il primo grande caso di istupidimento di questa figura è del 1910, quando la Edison production realizza un cortometraggio muto presentando una figura caratterialmente grottesca. Ma non si poteva pretendere di più da questi coraggiosi tentativi.
Uno dei primi atti di smembramento del mostro è invece il film Frankenstein di James Whale.
Oltre a regalare al dottor Victor un lieto fine inesistente nel romanzo, Whale dota il mostro di un cervello malato, incapace di comprendere la bontà, la compassione, ma pulsante di malvagità e istinti omicidi.
Questa è la prima grande stilettata che il cinema ha inflitto a questo capolavoro, oggi venduto come un romanzetto da piccoli brividi e narrato come una storiella per bambini. La strada del mostro verso la malvagità è tortuosa e, per certi aspetti, involontaria.
Figli dannati
Come affermato dalla stessa Mary Shelley, vi è un parallelismo inequivocabile fra la creatura dannata e la figura di Satana nel Paradiso Perduto di Milton.
Creati da un Padre egoista, vengono ripudiati a causa della loro imperfezione, indegni di sedere alla tavola dei propri fratelli cherubini, condannati alla solitudine e afflitti dalla maledizione di essere incompresi.
Molto più di una storiella
Il mostro è solo, abbandonato, spaventato dalla crudeltà dell’essere umano che teme il suo aspetto atipico. Sono i rifiuti, continui e inesorabili, a spingerlo verso la sua atroce vendetta.
Un sentore di questo superbo romanticismo si ha nel film di Kenneth Branagh, Frankenstein di Mary Shelley (1994), un adattamento degno di questo nome, che, come il fratello Dracula di Bram Stoker di Coppola, ha grandi attori al timone. De Niro rende benissimo il personaggio (anche se privo della chioma nera del romanzo) e sembra restituire dignità all’opera.
Anche l’immenso Frankenstein Junior di Mel Brooks (1974), nella sua ironia senza tempo, coglie a modo suo il dolore dell’inadeguatezza, traslandola nella figura del mitico Frederick Frankenstein (interpretato dal grande Gene Wilder).
Ma da lì, poco o niente si salva. Tanti, troppi i ridicoli colossal americani che mostrano la creatura come un essere demente, privo di qualsivoglia attributo umano. Victor Frankenstein di Paul McGuigan (2015) con Daniel Radcliffe , Van Helsing di Stephen Sommers (2004) con Hugh Jackman, e forse solo la dolcezza di Hotel Transylvania (Dženndi Tartakovskij, 2012) gli restituisce un po’ di umanità (anche se, ahimè, le sue origini non sono quelle della terra di Dracula, ma l’università di Ingolstadt, in Germania).
Solo negli ultimi anni si è acceso un mezzo barlume di speranza, che mi fa immaginare la riabilitazione di questa figura letteraria.
Meraviglioso è il mostro in Penny Dreadful di John Logan (2014 – 2016), poetico e struggente, dilaniato dalla solitudine, gentile sino alla reverenza, crudele come chi non ha nulla da perdere (magistralmente interpretato da Rory Kinnear). Qui c’è davvero tutto. L’aspetto, il carattere, la storia, anche se l’adattamento ha richiesto delle modifiche alla trama originale.
La vera creature
È Mary Shelley (una bellissima Elle Fanning) di Haifaa al-Mansour, da poco nelle sale, che ci parla del vero mostro di Frankenstein: l’autrice stessa.
Ciò che si legge nelle pagine del libro è un’autobiografia straziante di una donna vittima dell’inclemenza della vita, innamorata di una creatura piena di sé, che autocelebra la propria perfezione (il compagno e marito Percy Bysshe Shelley), e che la abbandona al mondo e al suo dolore.
Basta stereotipi
Nobilitiamo dunque la figura di Frankenstein, essere più simile all’uomo di qualsiasi altra creatura, che si interroga sul senso della sua vita, sul perché è stato condannato a venire al mondo senza chiederlo, e che descrive perfettamente la lotta fra l’uomo e Dio.
Dimenticate i chiodi, la testa grossa, gli ululati grotteschi, e riscoprite la bellezza di quest’essere meraviglioso che è il mostro di Frankenstein.