Massimo Cacciari, uno tra i più importanti filosofi italiani contemporanei, da sempre ha intrecciato la sua vita accademica e, si potrebbe dire, “contemplativa”, alla prassi politica attiva. Abbiamo avuto il piacere di porgli qualche domanda a proposito del rapporto tra cultura e politica.
Lei è in parte considerato il padre del pensiero Geofilosofico. Una sorta di geografia culturale e filosofica, simile a quella che lei esprime nel testo L’arcipelago, può essere un passo in avanti all’interno dello stagnamento del sapere umanistico? In che modo?
«“Geofilosofia” vuol dire nient’altro che il tentativo di vedere le relazioni che sussistono tra certi spazi geografico-politici e forme di pensiero e di vita. È evidente, quindi, che per comprendere le relazioni internazionali è necessario conoscere la specificità e le caratteristiche delle diverse culture e civiltà e capire come queste nel tempo si siano confuse, meticciate, separate e divise. Se per filosofia si intende anche una scienza delle culture, non esiste una filosofia né una cultura senza anche questa considerazione di carattere geografico. Quello che intendo dire, quindi, è che i territori e gli spazi determinano anche le forme di pensiero, e le forme di pensiero si accompagnano non soltanto a determinati linguaggi, ma anche a determinate aree geografiche. Ritengo che sia indispensabile in un momento di globalizzazione essere consapevoli di queste differenze e del loro intreccio».
Com’è cambiato il rapporto tra politica e territorio nel corso degli ultimi anni? In che posizione deve porsi la politica nei confronti del rapporto cultura-territorio-ambiente e, infine, può essere utile ritornare a riflettere e a tematizzare il problema del nomos?
«Quello del nomos è un problema enorme. Bisogna prima di tutto capire i significati di questo termine e sarebbe arduo ridurlo ora in due battute. Tuttavia il tema del “radicamento” è molto importante. È ormai chiaro che siamo in un’epoca in cui gli spazi sono divenuti globali, tuttavia questa nuova globalità non è per forza in contrasto con una determinatezza geografica. Io credo che, se pensiamo a una riforma della politica e se vogliamo dei politici responsabili, si debba cominciare da una corrispondenza tra il fare politica ed ambiti territoriali determinati. Altrimenti avremmo una classe politica del tutto formata soltanto sulla base della sua appartenenza al seguito di un capo. O c’è il capo ed i suoi accoliti, o ci sono tanti politici che rappresentano dei territori specifici. Senza questa relazione non può esistere una classe politica responsabile. Questo non nega il carattere globale che dovrà avere la tua iniziativa politica, la tua cultura ed il tuo spirito, ma significa che tu non nasci globale, ti fai globale a partire da una competenza specifica. Questo vale per ogni sapere, quindi anche per la politica».
Bisognerebbe quindi rivalorizzare il locale, anche a livello di politica territoriale e sensibilizzazione culturale?
«Certo. Bisognerebbe rivalorizzare il locale in un’ottica globale, non un locale come fortino fine a se stesso».
Secondo lei, vista la crisi politica e culturale attuale, la recente riscoperta di Marx e del pensiero marxiano può essere una nuova via da cui ripartire?
«Marx è un grande classico ed è indispensabile conoscerlo, oggi come allora. È uno di quegli autori del XIX secolo che hanno meglio previsto, o per meglio dire profetizzato, certi sviluppi dell’economia, della società, della politica mondiale contemporanea. Marx è un classico sia da questo punto di vista sia come posizione filosofica, perché la forma più rigorosa, filosoficamente parlando, di immanentismo è quella marxiana. Quindi non si tratta di declinarlo in modo ideologico e praticistico, Marx è un classico del pensiero filosofico che, come tanti, nell’800, ha visto con più precisione rispetto a filosofi accademici come andavano davvero le cose di questo mondo. Quindi non c’è nessun ritorno a Marx, perché le persone che sanno leggere e scrivere Marx l’hanno sempre frequentato».
Rapporto fra «Dìke», «Nomos» e «Agathòn»
Ci spostiamo poi nell’Aula Magna della scuola, dove Massimo Cacciari è stato invitato a tenere una lectio magistralis durante il pomeriggio dell’ultima giornata di autogestione. La conferenza ha come titolo Il giusto deve morire. La solitudine del bene: dalla Grecia tragica ai nostri giorni. Durante la lectio il professor Cacciari ha il compito di guidare i ragazzi all’interno di un percorso circa il rapporto tra Dìke, Nòmos e Agathòn nel pensiero filosofico dell’antica Grecia, per rispondere alla domanda provocatoria postagli all’inizio dal moderatore: «Socrate era o non era innocente? Perché è stato condannato? Ma soprattutto, perché ha deciso di morire?».
Con semplicità, ma in modo completo e profondo, il filosofo Massimo Cacciari spiega che esiste una grande differenza tra ciò che è “giusto”, ovvero governato da Dike (la giustizia), e ciò che è “lecito”, ovvero che è secondo Nomos (la legge). Dike fa riferimento ad un ordine cosmico e potrebbe essere assimilata a ciò che nella Giurisprudenza diverrà poi la “legge natura”, il “giusnaturalismo”, mentre Nomos ha un significato immanente, è l’ordinamento di un territorio (la parola greca nomos in origine indicava il pascolo, quindi un territorio destinato ad un’attività definita) in cui vengono date le parti; per continuare il parallelismo con la Giurisprudenza, il Nomos è il “diritto positivo”. Nomos e Dike instaurano tra loro un rapporto dialettico, che ha una forte impronta tragica. L’uomo “giusto” infatti può non riconoscere la legge della città se ritiene che essa non sia secondo Dike, cioè se pensa che essa non riconosca l’ordine naturale delle cose. L’esempio della tragicità dialettica di questo rapporto è la vicenda di Antigone, la storia del contrasto tra la Dike del proprio daìmon e il Nomos della città: un contrasto che si può difficilmente risolvere e che solamente i grandi filosofi antichi, Platone ed Aristotele, riescono a sciogliere, aggiungendo ai due termini del contrasto un terzo. Per Platone questo terzo elemento è Agathòn, banalmente il bene, filosoficamente (e linguisticamente): ciò che va oltre. Il contrasto tra Dike e Nomos, a questo punto, si potrebbe risolvere pensando a una città in cui i molti daìmon diventino uno, nel senso che tutti gli uomini devono rivolgere la loro coscienza (e la loro privata Dike) ad Aghatòn, cioè al Bene. Per Aristotele invece il terzo termine è Isos, l’uguale. Non c’è Dike se Nomos non è anche isonomia, cioè se l’io non vuole anche il bene dell’altro.
La conclusione è che Socrate non era innocente. Ma non in senso negativo: Socrate era un filosofo e come tale aveva portato in crisi l’assetto giuridico della città. In quanto rivoluzionario egli ha dovuto pagare il prezzo della sua rivoluzione: ma è morto felice, senza rimpiangere né contraddire se stesso e la propria ferrea razionalità. Dalle parole di Massimo Cacciari emerge chiaro il fatto che il pensiero politico dei grandi filosofi greci può e deve parlarci ancora adesso. La domanda che gli poniamo alla fine della sua lezione, infatti, è la seguente:
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In un mondo come quello in cui viviamo oggi, dove viene propugnata la cultura scientifica e tecnico-tecnologica e discapito della cultura umanistica, che senso ha studiare ancora le materie classiche ed umanistiche? Questa cultura, quella umanistica, e in particolare il pensiero greco, possono aiutarci a uscire dalla crisi socio-politica ed etica in cui siamo immersi? In che modo?
«Sarò breve: si ignora la cultura umanistica? Può darsi che una pianta possa crescere completamente sradicata, ma quello che è certo è che si parlerebbe senza sapere quello che si dice. Voi parlate costantemente di uguaglianza, di legge, di giustizia. Ma sapete cosa dite? Se non avete la minima idea del pensiero classico, degli autori classici, voi non siete dei parlanti ma dei parlati. Voi credete di parlare, ma in realtà la lingua parla in voi, perché ripetete termini ignorandone il significato, la radice. Ignorate il significato non solo in modo linguistico, ma in modo semantico. La conoscenza di questi autori vi dà questa arma: riuscire a dare ragione di ciò che dite. Credo che questo dia una certa superiorità. Voi dovete essere gli àristoi: una persona che fa un percorso di studi umanistici deve avere in mente di diventare àristos, ovvero il migliore. Solo così si può fare del bene alla democrazia. Non so se sia chiaro perché siete democratici. Probabilmente non lo è, poco importa: ormai sono democratici tutti! Ma perché siete democratici? Perché non siete per la monarchia assoluta? Eppure il re Sole era bravo. Qual è il motivo per cui non volete il re Sole? Io sono democratico perché credevo che, attraverso il mio voto e attraverso il ragionamento di sottoporre a critica razionale i programmi che mi venivano presentati, io potessi scegliere i migliori. Noi siamo democratici perché riteniamo di avere la ragione sufficiente e di essere sufficientemente informati e coscienti per scegliere a governarci i migliori. E come si dice “migliori” se non “àristoi”? Quindi, io sono democratico perché sono aristocratico. Voi dovete diventare àristoi e volere che la democrazia sia aristocrazia sul piano del merito, del valore, della conoscenza, della consapevolezza. E qual è la vera “paìdeia”? Secondo me sono gli studi liceali, ed in particolar modo il liceo classico. Nel liceo classico c’è tutto. C’è poi un secondo aspetto: come volete elaborare una coscienza critica se non attraverso determinate letture e conoscenze? Gli àristoi sono i migliori perché sono curiosi e non sono mai soddisfatti né contenti di quel che hanno, perciò sono sempre spinti a cercare di più. Ma la curiosità non basta, bisogna avere anche spirito critico, saper mettere in discussione. Come facciamo ad armarci dello spirito critico, unico mezzo che ci permette di essere liberi, se non attraverso determinate letture e determinati studi? È a scuola, nella scuola fatta come si deve che si impara ad essere àristoi ed è attraverso il dialogo e il confronto tra coetanei. Ognuno potrà fare poi il percorso che più gli si addice: medicina, legge, ingegneria… Ma non ho mai conosciuto nessun grande medico, nessun grande fisico, nessun grande ingegnere che non avesse coscienza critica, cioè che non fosse appassionato di quei testi su cui soli ci si forma una coscienza critica. Nei classici noi ascoltiamo la voce di persona che ha sconquassato il pregiudizio ed ha messo a soqquadro ogni coscienza prestabilita. E se la scuola vi fa leggere i classici come un catechismo dovete ribellarvi. La ricchezza di questi studi sono le domande, i dubbi, le angosce, che hanno mosso tutti i grandi pensatori. Sono angosciato dall’idea dell’eliminazione del percorso di studi classico. Esso può essere arricchito, ma la sua eliminazione è angosciosa. Perché la vera omologazione, in realtà, parte da un percorso di studi che sia uguale per tutti e sia portatore della cultura che inquieta. Il classico non è qualcuno che dice autorevolmente qualcosa, ma è la domanda che non trova mai risposta. Questo è il classico. E questa è la cultura».
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