L’ultimo libro di uno dei più celebri filosofi italiani contemporanei, Roberto Esposito, intitolato Immunità comune. Biopolitica all’epoca della pandemia, è una trattazione densa, serrata, sistematica del rapporto scabroso tra vita e politica, con un’apertura di letture, nel finale, sulla pandemia Covid-19. L’autore, esponente di spicco del cosiddetto “Italian Thought”, aveva analizzato a fondo, tirando i fili della biopolitica foucaultiana e tessendoli con altre tradizioni e autori, il rapporto tra Communitas e Immunitas, cioè tra comunità e dispositivi di protezione della stessa, e da qui tra politica, vita e protezione della vita nella contemporaneità. In questo libro, i suoi studi vengono ripresi passo dopo passo, in cinque capitoli.
Contaminazioni
Nel primo capitolo di Immunità comune, Contaminazioni, Roberto Esposito riprende la definizione dei due termini come derivanti dal latino munus, cioè “obbligo”, “incarico”, “ufficio”, ma anche “dono”. L’organismo politico è così tagliato da linee di inclusione-esclusione che separano coloro che sono legati da un obbligo donativo gli uni-con-gli altri e coloro che, in forme differenti, ne sono esclusi, essendo per questo, a vario titolo, diversi. Non a caso viene evocato il katechon, sinistra figura paolina, freno contro l’Apocalisse che, integrandola parzialmente in sé, la rimanda. Se il rischio è la dissoluzione della comunità, i dispositivi immunitari, agendo come il suo negativo, servono ad esorcizzare ciò che può minarne la sopravvivenza. Spinti oltre una certa soglia, però, essi possono diventare gli agenti diretti del crollo. Il parallelo con il sistema immunitario dei corpi, così, è presto fatto. Se già nel diritto romano era presente la categoria di “immunità” sul piano giuridico, che istituisce il paradosso per cui la legge decreta la sua stessa deroga, essa trasmigra semanticamente quando viene concettualizzato il sistema immunitario biologico, per poi intrecciarsi, in epoca moderna, nella biopolitica foucaultiana, fino alla spinta securitaria della contemporaneità.
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Le epidemie, nella storia dell’umanità, hanno sempre avuto un ruolo centrale, determinanti, ad esempio, nella vittoria dei conquistadores spagnoli che importarono nel Centro America malattie sconosciute alle popolazioni locali, provocandone lo sterminio e l’assoggettamento. Esse non erano, appunto, immunizzate. Ma è solo col Settecento che la politica degli Stati europei comincia a prendere in carico, sul piano amministrativo e governativo, la questione delle malattie e della salute pubblica, sulla scia di quelle politiche precedenti che, in parallelo allo sviluppo del capitalismo, cominciavano ad occuparsi di un oggetto nuovo: la “popolazione” (tassi di natalità, mortalità, forza lavoro, ecc). La svolta avviene, nel XIX secolo, con l’introduzione della vaccinazione. In una lunga storia che va da Jenner a Pasteur e oltre, tra scontri politici e internazionali, la vaccinazione, cioè la procedura di inoculazione di organismi (batteri, virus, ecc) in forma attenuata per stimolare l’intervento del sistema immunitario, producendo una “protezione”, grazie alla memoria immunitaria, da altre eventuali infezioni, diviene affare di Stato, persino in ambito militare. In altre parole, è l’alba della biopolitica.
Democrazia autoimmunitaria
Nel secondo capitolo di Immunità comune, intitolato Democrazia autoimmunitaria, è la democrazia ad essere letta da Roberto Esposito attraverso il paradigma immunitario. Oltre una certa soglia, la democrazia si nega per potersi proteggere: in altre parole, deve autoimmunizzarsi, come intuito da Jacques Derrida. Sin da Atene e Sparta, il potere (kratos) del popolo (demos) giungeva a coincidere con il potere, effettivo, di una minima parte dell’intera popolazione, e non a caso quella impegnata nella guerra. La democrazia è attraversata da un’aporia: da un lato, il popolo è sia oggetto che soggetto del governo, dall’altro, deve eleggere dei rappresentanti, cioè una sua parte. Anche nel metodo dell’estrazione a sorte, più volte sperimentato nella Storia, i sorteggiati possono inseguire una tendenza aristocratica. Nell’abbandonare l’opzione del sorteggio, fu ritenuta importante la questione del consenso, visto come fonte di legittimità politica. Ma il consenso risulta instabile e malleabile, e neanche l’allargamento della platea elettorale, tramite il suffragio universale, può sottrarsi a questo. Se quindi il principio di rappresentanza può «tradire la democrazia con l’aristocrazia», il principio di identità non è meno scivoloso.
Jean-Jacques Rousseau, in un certo senso padre della democrazia moderna, con il suo concetto di «volontà generale», spinge per la fusione in un “io comune” dei componenti della comunità, alienati perfettamente nella totalità. Andando incontro a fratture e aporie, come il ricorso alla figura del Legislatore, garante esterno di quella volontà, anche il suo paradigma risulta inapplicabile sul piano politico, pena l’auto-soppressione della democrazia stessa. L’ultima figura citata riguardo a questa intrinseca tendenza autoimmunitaria è quella inquietante di Carl Scmitt: da un lato, egli vede nell’acclamatio l’unico potere costituente effettivamente democratico, ma dall’altro il “popolo” stesso è definibile solo in negativo. Per lui, ne fanno parte «tutti quelli che non sono eccellenti o distinti, tutti i non privilegiati, tutti quelli che non sono posti in risalto dalla proprietà, dalla posizione sociale o dall’educazione». In altre parole, il popolo stesso si definisce attraverso l’esclusione più che l’inclusione. Ed è attraverso la figura dell’Educatore o dell’identificazione alla Nazione che queste linee, istituendo la dialettica amico-nemico, vengono giocate nell’esistenza politica di un “popolo”. Si staglia, così, l’ombra della dittatura. In questo senso, ne la Democrazia in America, Alexis de Tocqueville vedeva nell’associazionismo un freno alla tendenza autoimmunitaria, cioè un’attenuazione della distanza tra governati e governanti e un riconoscimento della minoranza nella maggioranza.
Nel tempo della biopolitica
Il capitolo terzo, Nel tempo della biopolitica, è tutto imperniato sulla nozione di biopolitica di Michel Foucault. Partendo dalle critiche di vari autori, Roberto Esposito difende e approfondisce la prospettiva foucaultiana. La vita è una soglia, indicatore epistemico, tra la sua pura esteriorità biologica e la penetrazione dei poteri-saperi. Ora, la presa in carico della vita da parte della politica, come indicato nell’ultimo celebre capitolo del corso Bisogna difendere la società, rivela un volto tetro nel razzismo di Stato nazista, dove tale discorso, giocatosi spesso nella Storia e nella guerra come giustificazione di conflitti, viene trasposto sul piano biologico, istaurando una relazione vita-morte dove la morte della razza inferiore sviluppa e potenzia la vita di quella superiore, decontaminandola completamente. Fino al paradosso, più oscuro, dell’ordine di Hitler di un suicidio di massa al momento della sconfitta bellica, proprio in nome della razza eletta.
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Successivamente, però, Foucault pare abbandonare questa nozione per quella di “governamentalità”. Secondo Esposito, essa non è nient’altro che una «specificazione storica» della biopolitica, ovvero ciò che sta alla base stessa dello Stato: essa ha come oggetto la “popolazione” ed è innervata dalle strategie di sicurezza. Più che l’apparato della Legge e del Regno, è il Governo che viene analizzato. E nel corso Nascita della biopolitica il discorso viene portato nell’analisi stessa del neoliberalismo. Neanche il governo deve «governare troppo», per non frenare le naturali dinamiche economiche, ma allo stesso tempo deve agire per renderle possibili. Nel rischio della condotta dell’homo oeconomicus, paradossalmente, si crea esigenza di sicurezza, in uno strano cortocircuito. Eppure, per spezzare questo cerchio, Esposito identifica in questo corso anche gli indizi di un discorso istituzionalista che potrebbe portare a una biopolitica affermativa, sotto forma di potenza istituente.
Filosofie dell’immunità
Nel capitolo quarto, Filosofie dell’immunità, l’immunità è riportata da Roberto Esposito a livello della civiltà stessa. Ma nella sua accezione moderna, in ambito filosofico, molti autori ne hanno fornito varie sfumature. In Martin Heidegger, “l’epoca dell’immagine del mondo” è l’epoca che tratta il soggetto, da Cartesio in poi, come spinto all’esigenza della certezza di sé e, quindi, dell’oggetto di fronte a sé, in modo da poterne disporre a pieno. Per fare questo, però, è in costante ricerca della propria assicurazione. In Friedrich Nietzsche, invece, la vita come volontà di potenza eccede sempre se stessa, e la spinta alla sua protezione, ad ogni costo, non può che spegnerla e mortificarla. In Freud, il disagio della civiltà impone il male minore della rinuncia pulsionale allo scatenamento pulsionale dissolutivo di ogni vivere in comune. Ed è l’interiorizzazione della colpa, eco del primo parricidio mitico del Padre, a fungere da dispositivo interno. In René Girard, è il capro espiatorio e il dispositivo sacrificale che, inoculando nella società un po’ della violenza fondatrice, esorcizza il rischio della sua apparizione. E quando la crisi sacrificale rischia di prendersi tutto, è il capro espiatorio a fungere da punto di arresto, pharmakon, allo stesso tempo, salvifico e maledetto. A questi si aggiungono i lavori di Nicklas Luhmann sulla struttura stessa dei sistemi sociali, visti come sistemi di una comunicazione sempre in atto dove il negativo e la contraddizione sono segnali d’allerta per l’immunità del sistema, l’idea autoimmunitaria di Derrida e la lettura de proposta da Peter Sloterdijk della storia umana nella trilogia delle Sfere. Immunità e vita appaiono, così, inestricabili e indivisibili.
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Covid-19
Nell’ultimo capitolo di Immunità comune, Roberto Esposito cerca di trarre delle indicazioni e delle letture alla luce della pandemia Covid-19. Esplosa in tutto il mondo, preoccupazione forsennata dei governi, la categoria di immunità, nelle sue profonde e sfaccettate accezioni, ritorna prepotentemente. Puntualizzando la distinzione tra «stato di emergenza» e «stato di eccezione», il filosofo riporta le teorizzazioni moderne del sistema immunitario non come difesa dall’esterno e dall’altro nocivo, ma al contrario come ciò che permette lo scambio tra interno ed esterno. La pandemia, toccando tutto il mondo e tutti i ceti in un’epoca di biopolitica avanzata, riporta all’improvviso la communitas originaria degli uomini esposti alla vulnerabilità: communitas e immunitas vengono stranamente a coincidere. Per Roberto Esposito, la politica, al di là degli interessi economici e geopolitici che tagliano chi è incluso e chi è escluso dalla protezione della vita, può essere il campo di battaglia per questa nuova articolazione, inedita, tra communitas e immunitas.
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