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Tra sesso e violenza, il cinema di Kōji Wakamatsu

Dai B-movie erotici ai film di denuncia: come ha fatto il regista giapponese Kōji Wakamatsu a unire così efficacemente erotismo e ribellione?

8 minuti di lettura

Dei registi della sua generazione Kōji Wakamatsu, alias Takashi Ito, è senza dubbio il più estremo e potente. «Un rivoluzionario senza dogmi», lo ha definito Roberto Silvestri, capace di passare con agilità dai B-movie erotici ai film di denuncia sempre nel segno della dismisura, rompendo i tabù e screziando la superfice.

Impossibile indagarne l’arte senza riavvolgere il nastro dell’esistenza, ricordando i mesi di detenzione scontati negli anni Cinquanta per affiliazione alla yakuza (la criminalità organizzata nipponica). Da qui ha origine il grumo, quell’impasto di eros, violenza e potere che segna tutta la sua produzione. Wakamatsu del resto è così: genio e sregolatezza con metodo, come l’Amleto shakespeariano.

L’esperienza carceraria gli svela il volto dell’autorità, un brutale senso di giustizia che è – per citare la monografia di Nicola Boari – «piacere della distruzione», attacco al diverso e alle minoranze in totale assenza di rieducazione. L’approdo al cinema è in tal senso un segnale, meglio la resistenza contro il potere costituito, logorato ai fianchi col ricorso all’eroduction e ai pinku eiga (banalmente “film rosa”) generi in grado di scandalizzare, di divenire – come per Pasolini in Italia – armi di impegno e disintegrazione.

Persino le prime pellicole, da lui definite «softcore» con bellissime attrici, conservano una potenza che si annida nelle immagini, nelle pieghe dei corpi indocili dei giovani giapponesi, impegnati in un Sessantotto iniziato dieci anni prima, nelle lotte contro l’AMPO (l’accordo militare nippo-statunitense) e l’espansione capitalistica. Wakamatsu li “insegue”, come Nagisa Ōshima o Seijun Suzuki, e ne fa un baluardo di opposizione, delle soggettività in movimento perseguitate dal potere, guidate da un desiderio sovvertitore e da un eros spontaneo, criminalmente antisistema.

Nulla sfugge al suo occhio antagonista, capace di catturare l’ottusità della classe dominante che in tempo di pace ha esteso in chiave soft le tecniche macabre del generale Hideki Tōjō, primo ministro del Giappone durante il Secondo conflitto mondiale: repressione, censura, arresti durante gli scioperi, devastazione urbana come illusione di grandezza.

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Secrets Behind the Wall (1965) è in tal senso emblematico, forse ancor più dei palazzoni fissati in Su su per la seconda volta vergine (1969). Qui gli ambienti sono opprimenti, claustrofobici, espressione delle micro-unità seguite al deviato “boom economico” degli anni Cinquanta. Sembra di scorgere un Yasujirō Ozu rovesciato, messo in parodia mediante l’ammasso di pentole e utensili, così diversi dalla rigorosa composizione del Maestro. E poi c’è il sesso, in stretto legame con la violenza, perché la casa è metafora della società, nucleo ristretto in cui convergono le devianze. Così Makoto, il protagonista, è confinato dai genitori in una stanza, ma invece di studiare osserva gli amplessi dei vicini, si masturba sfogliando riviste porno, arriva persino a uccidere la sorella e la dirimpettaia.

Kōji Wakamatsu
Kōji Wakamatsu, Secrets behind the wall (1965)

Wakamatsu non risparmia nulla, è disturbante e repellente, come quando in Caterpillar (2009) effigia un soldato senza arti, declinazione estrema del soggetto di Dalton Trumbo E Johnny prese il fucile (1971). Tornato dalla guerra sino-giapponese orribilmente menomato – un tronco d’uomo – il tenente Korokawa costringe la moglie a continui rapporti sessuali nel tentativo di colmare la frustrazione e il dramma dell’in-esistenza. Una figura che «viene dall’infanzia» ha dichiarato il regista, quando nel dopoguerra aveva visto «persone in strada ridotte così, [e] il governo le usava per parlare di eroismo».

È la guerra, il conflitto armato, il vero tarlo di Wakamatsu:

Ancora oggi sento parlare di guerre dichiarate in nome della giustizia, della democrazia: tutto falso. Non c’è nulla che giustifichi la guerra. Mi è capitato di fare una lezione all’università, quasi nessun ragazzo giapponese sui vent’anni aveva chiaro cosa fosse accaduto 60 anni fa. I più giovani non sono informati neppure su Hiroshima e Nagasaki. È molto facile conquistare il consenso da chi è tenuto all’oscuro. Il governo ha sempre utilizzato la propaganda bellica.

Kōji Wakamatsu

Il sesso diviene allora immagine dalla doppia valenza: da un lato è sovversivo, dirompente, dall’altro simbolo di guerra, «che è la situazione in cui più di ogni altra le persone vengono sopraffatte e private dei loro diritti»:

Gli uomini sono violenti con le loro mogli, le considerano oggetti sessuali o macchine per la riproduzione. La cosa più assurda è che in Giappone una relazione del genere tra uomo e donna è del tutto normale. In Caterpillar il sesso esprime un sentimento primordiale di disperazione. L’uomo non può fare nulla e comincia a pensare ossessivamente al sesso perché è la sola cosa che gli rimane. Più in generale, se analizziamo le conseguenze della guerra, è evidente che le vittime principali sono le donne e i bambini […]. La parabola dei due protagonisti dice cosa significhi per ciascun essere umano modellare l’esistenza sui concetti di patria e nazione.

Kōji Wakamatsu

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Kōji Wakamatsu
Kōji Wakamatsu, Ecstasy of the Angels (1972)

In Sex Jack (1970) ed Estasi degli angeli (1972) l’eros è invece rivoluzione, emblema di una stagione in cui si tentano altre vie, anche estreme, come il passaggio alla lotta armata o la psicosi del martirio. Tante le scene emblematiche, dalla masturbazione simultanea al sesso durante le riunioni, con la ragazza che all’apice del piacere declama proclami politici. Erotismo e ribellione, dunque, o «Eros più Massacro» come diceva Enzo Ungari, tra i primi a mostrare i film di Wakamatsu nei cineclub degli anni Settanta.

Nessuno ha saputo raccontare così la devianza, unire l’insubordinazione dei fuorilegge (criminali, maniaci, killer) al ribellismo degli anticorpi, dei resistenti fino all’estremo contro il sistema “normale”.

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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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