Fin dai tempi più antichi, la felicità è stata intesa come piena realizzazione della propria essenza. Basti pensare alla celebre definizione della felicità fornitaci da Aristotele: «Il bene umano [la felicità] consiste in un’attività dell’anima secondo virtù, e se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la più perfetta.» (Etica Nicomachea I,6). Proviamo a chiarire cosa intende dire Aristotele, tenendo ben presente quanto egli ha sostenuto nelle parti precedenti dello scritto.
Inizialmente, nel capitolo primo del primo libro, lo stagirita non parla della felicità, ma parte dalla constatazione che tutto tende ad un bene e che dunque il bene supremo è ciò cui tutte le azioni tendono, ossia è il fine ultimo. Questo bene, che è appunto insieme fine ultimo, esiste? Per rispondere a ciò, bisogna verificare se esista un fine ultimo. Ogni sapere ha un fine (il fine della medicina è la salute, il fine dell’arte strategica è la vittoria ecc.) e quindi, per trovare il fine ultimo, si dovrà cercare quello che è il sapere ultimo, che quello più architettonico, quello cioè cui tutti gli altri saperi sono subordinati. Se una simile disciplina c’è, c’è anche un fine ultimo e dunque un bene ultimo. Secondo Aristotele questo sapere ultimo c’è: la scienza politica. La politica è la scienza suprema perché è quella che organizza tutte le attività umane della città. A questo punto è tempo di chiedersi quale sia il bene che è oggetto della scienza politica. È presto detto: è la felicità, sia secondo i sapienti che secondo il popolo. Però il popolo e i sapienti hanno due diverse concezioni della felicità, ma, secondo Aristotele, né l’una né l’altra sono esatte. Nel capitolo I,6, quello da cui abbiamo preso la precedente citazione, lo stagirita svela le carte: la felicità è la realizzazione della funzione propria dell’uomo. La funzione propria è quello che, in un linguaggio filosofico cui siamo più abituati, potremmo definire come “essenza”: quella proprietà che caratterizza come tale chi la possiede. Si tratta dunque di capire ora quale sia l’essenza dell’uomo, per capire in cosa consista la felicità. Torniamo alla citazione con la quale abbiamo iniziato il discorso: «Il bene umano consiste in un’attività dell’anima secondo virtù, e se le virtù sono molteplici, secondo la più eccellente e la più perfetta.». Ma quello che vuole dire forse non è ancora chiaro: proviamo a fare ordine. Cosa significa «un’attività dell’anima secondo virtù»? Per capire cosa sono le virtù, dobbiamo chiarire come Aristotele intenda l’anima umana. Questo punto credo che faccia parte del bagaglio culturale collettivo. L’anima è divisa in tre parti: la parte vegetativa (puramente irrazionale, comune a tutti gli esseri viventi); la parte sensitiva e desiderativa (in parte irrazionale e in parte razionale, comune ad animali e uomini); la parte razionale, propria degli uomini. Una virtù [ἀρετή] è quello che potremmo definire “il modo perfetto d’essere”. Ogni parte dell’anima ha dunque una virtù sua propria, ma le virtù diventano rilevanti quando hanno a che fare con il vivere bene, cioè con il vivere secondo ragione. Abbiamo visto che il vivere secondo ragione è proprio sì della parte razionale, ma è presente anche nella parte desiderativa, poiché essa è razionale quando segue la ragione: da qui la celebre distinzione tra le virtù etiche (il “modo d’essere perfetto” dell’anima sensitiva/desiderativa) e le virtù dianoetiche (il “modo d’essere perfetto” dell’anima puramente razionale). A questo punto, Aristotele inserisce nella trattazione un lungo excursus su quali siano le virtù. Si arriva così al libro X, dove Aristotele sembra rinnegare quanto detto nel libro I. Tralasciando il grande dibattito esegetico su queste pagine, scopriamo qui che secondo Aristotele, la felicità è vivere secondo la virtù più perfetta, ossia secondo la sapienza, che viene dunque a caratterizzarsi come la funzione propria, l’essenza dell’uomo.
A questo punto possiamo anche lasciare Aristotele al suo destino e ritornare da dove siamo partiti: da sempre abbiamo considerato la felicità come realizzazione della propria essenza e, se non basta l’esempio aristotelico, si potrebbero anche prendere in considerazione gli Stoici, piuttosto che Plotino o tanti altri ancora, ma è cosa che non ritengo opportuno fare ora.
Siamo però disposti a seguire Aristotele nel dire che l’essenza dell’uomo sta nell’esercizio della sapienza, nella svolgere la famosa attività contemplativa? O noi “moderni” non crediamo forse che altra sia l’essenza umana? Possiamo ancora sostenere senza remore che l’uomo è l’animale razionale che, nell’attività contemplativa, si assimila a Dio, cioè diviene egli stesso solo pensiero? Se ci chiedessero oggi di definire cosa sia l’uomo, cosa diremmo? Possiamo davvero rinnegare la nostra corporeità a scapito di questo modello di razionalità pura?
Credo di no. Dirò di più: credo che nessuno possa prescindere dalla componente più animale nel descrivere cosa sia l’uomo. Quello che abbiamo imparato è sì che siamo animali razionali, ma siamo anche, appunto, animali, indissolubilmente legati ad una dimensione fisica e, quindi, provvisti di impulsi, passioni, desideri e quella che potremmo definire “volontà di potenza”. Anche Aristotele nel libro I dell’Etica Nicomachea partiva da un simile presupposto, ma nella stesura dell’opera qualcosa è cambiato, tanto da fargli sostenere che l’uomo può essere felice solo svincolandosi dalla sua fatticità per consegnarsi all’immortale dimensione della razionalità.
Da questo ripensamento aristotelico credo che qualche spunto lo possiamo trarre. Di cosa si è reso conto lo stagirita? Penso che la risposta sia questa: se consideriamo anche la parte animale dell’uomo, non possiamo attribuirgli la felicità. Aristotele non lo dice esplicitamente, ma credo che sia una lettura legittima che si possa dare all’Etica. Quello che, a mio avviso, è il motivo di ciò, lo vedremo tra poco. Per ora voglio far notare un’altra cosa: nel libro X, dopo aver scritto che alla felicità si arriva tramite l’attività contemplativa, cioè tramite l’uso della virtù della sapienza [«(…) ciò che è proprio a ciascuno è per natura ciò che per ciascuno vi è di più alto e di più piacevole. E per l’uomo, dunque, sarà la vita secondo l’intelletto, se è vero che quest’elemento è soprattutto l’uomo. Di conseguenza questa vita è anche la più felice» (Etica Nicomachea X,7)], Aristotele fa un’osservazione per lui marginale, ma che, al fine del nostro discorso, credo invece essere fondamentale.
«Ma, in quanto è uomo e vive con la massa della gente, [il sapiente] sceglie di compiere ciò che è conforme alla virtù: quindi avrà bisogno delle cose di cui si è detto per vivere da uomo.»(Etica Nicomachea X,8)
Questa considerazione, dal retrogusto un po’ amaro, credo essere la chiave di volta del nostro discorso. Anche il sapiente, in quanto è uomo e vive con la massa della gente, ogni tanto deve smettere l’attività contemplativa per “ritornare sulla terra”. Questa idea dell’uomo come pura razionalità, a mio avviso, entra in tensione con un’altra famosa tesi aristotelica: l’uomo è l’animale sociale. Non si può sempre contemplare: siamo uomini e, proprio per questo, viviamo in società e siamo richiamati a bisogni da sopperire e a obblighi da adempiere. Il sapiente dovrà così di tanto in tanto interrompere la sua beatitudine per ritornare in mezzo a noi: la felicità dunque non è una condizione permanente. Questa cosa non sembra creare problemi ai giorni nostri, dato che possediamo una concezione ben diversa da quella dell’antichità: è doveroso far notare che per gli antichi la felicità non era uno stato momentaneo, ma una condizione permanente – non si parla di momenti felici, ma di vita felice. La felicità, così intesa, è incompatibile con il vivere sociale, con buona pace di Aristotele.
Tuttavia, questo non sembra ancora creare problemi per noi che intendiamo la felicità come uno stato momentaneo. Su questo però tornerò più avanti, ora voglio vedere come cambiano le cose considerando l’uomo non come l’essere supremo e razionale, ma come lo consideriamo oggi: ineluttabilmente compromesso con il suo essere desiderante, soggetto a passioni ed impulsi. Alla luce di quanto detto finora, mi pare evidente che la situazione così sia forse ancora più drammatica: grazie anche al nostro essere comunque razionali, la società, con la conseguente morale, nasce con il compito di reprimere quella nostra animalità, che qui stiamo considerando come essenziale nell’uomo, al fine di salvarci dai nostri stessi simili, oltre che dai nemici esterni. Come possiamo quindi essere felici, se abbiamo detto che la felicità è la realizzazione della nostra essenza, cioè della nostra animalità, quando la società reprime appunto questa animalità? Vivere in società impedisce la piena felicità, ma del resto non possiamo nemmeno vivere senza società, proprio per quello che abbiamo detto. Vivere in società significa, grosso modo, sopravvivere: sembra che siamo chiamati a scegliere se sopravvivere o essere felici. Storicamente l’uomo ha scelto la prima via, ha cioè preferito il “quieto vivere” ad una piena e realizzata felicità.
Abbiamo dunque visto che una felicità “all’antica” non è attuabile con nessuna delle due concezioni dell’uomo esaminate. Che fare, allora? Si potrebbe provare a proporre un nuovo modo di intendere l’uomo, oppure rinunciare per sempre ad una siffatta felicità.
La prima via è stata affrontata da Friedrich Nietzsche, che, come tutti sanno, ha formulato la celebre teoria dell’Übermensch. La tesi dell’Oltreuomo nasce come risposta al problema del nichilismo. Potremmo dire che le cause del nichilismo che Nietzsche diagnostica sono fondamentalmente due: la “morte di Dio” e l’essere stanchi dell’uomo così come l’abbiamo conosciuto. Come credo si sappia, la celebre tesi, esposta nell’aforisma 125 de La gaia scienza, non è una tesi di carattere teologico, non è solo una professione di ateismo: con Dio muoiono tutti quelli che sono stati i grandi valori di riferimento della cultura occidentale, lasciando l’uomo in balìa di se stesso. Nella Genealogia della morale 1,12, Nietzsche scrive anche: «La vista dell’uomo rende ormai stanchi – che cos’altro è oggi nichilismo, se non è questo? … Noi siamo stanchi dell’uomo …». La soluzione prospettata allora è, come detto, quella dell’Oltreuomo.
Ecco, io vi insegno il superuomo!Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra!Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio.(Così parlo Zarathustra, Prologo di Zarathustra 3)
e ancora:
L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, – un cavo al di sopra di un abisso.Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi.La grandezza dell’uomo e di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto.(Così parlo Zarathustra, Prologo di Zarathustra 4)
Su queste mirabili pagine ci sarebbe tanto da dire, ma non è questa la sede. Vorrei solo far notare che appunto Nietzsche propone un nuovo modo di intendere l’uomo come soluzione al nichilismo. Ma questa via è percorribile? Possiamo imparare ad essere Oltreuomini? Credo di no. Perché? Per lo stesso motivo discusso prima: l’uomo non può fare a meno di vivere in società e, come ha da scrivere Nietzsche stesso, la comunità è come un organismo che si difende da quegli individui straordinari che la vogliono “infettare” dall’interno. Anche la tesi di proporre un nuovo modo di intendere l’uomo sembra scontrarsi tragicamente con la necessità di un vivere sociale. Credo che, anche proponendo nuove tesi sull’uomo, questo problema sia ineludibile.
Torniamo allora all’altra alternativa: potremmo rinunciare per sempre ad una felicità intesa come vita pienamente felice. Questa via sembrerebbe essere stata quella che di fatto l’umanità ha percorso. Abbiamo rinunciato, volenti o nolenti, ad una vita felice, per accontentarci di piccoli attimi di felicità. Abbiamo imparato a godere delle piccole cose che, attimo per attimo, ci si presentano, pur con la consapevolezza che questa non è vera felicità, ma è solo appagamento temporaneo, che non tarderà a sparire e a ricondannarci alla sua ricerca. Questa conclusione, che odora di Kierkegaard, pare essere la vera dimensione umana. Viviamo inseguendo l’attimo felice e, quando lo raggiungiamo, è già passato, lasciandoci un malinconico e nostalgico ricordo e la condanna a ricercare nuova felicità. In questa corsa all’infinito sta l’uomo, l’animale infelice e mai pago, quell’animale che, per poter sopravvivere e svilupparsi, ha dovuto rinunciare per sempre all’essere felice.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!