Una premessa linguistica. In questo articolo quando viene utilizzato l’aggettivo «meridionale» s’intende slegarlo da una marcatura prettamente geografica, al di fuori dell’accezione «persona nata nel sud»: è «meridionale», cioè, quella situazione (economica o antropologica che sia) che accade sì nel Mezzogiorno, ma che riflette il più ampio sistema-Italia. Al Sud, molti nodi del paese vengono al pettine, gonfiandosi ed esplodendo sotto gli occhi di tutti. Ma sotto gli annosi problemi meridionali sono sedimentate le contraddizioni di ciascuna regione; prendete in esame una qualsiasi malattia del Sud, fatene la diagnosi: con intensità più o meno acuta, essa ha colpito già i territori del Centro-Nord. Il Sud e il Nord esistono in ogni città, in ogni scuola, in ogni relazione. Sta a noi la consapevolezza che «meridionale» aggettivizza ciascuno di noi.
A cavallo fra luglio e agosto, il rapporto SVIMEZ sull’economia del Mezzogiorno ha riportato l’attenzione pubblica – per troppo poco tempo – sulla tragedia vissuta dal Sud. Si è tornato a parlare di questione meridionale, Roberto Saviano ha pubblicato una lettera su Repubblica indirizzata a Matteo Renzi, il primo ministro ha risposto esortando(ci) a non sparlare dell’Italia, qualche altra fiamma… poi, il buio. Nonostante la conta delle vittime sia stata resa pubblica, sarebbe bene rileggere più volte quelle cifre. Risuonino il 70% delle perdite di lavoro in Italia determinate dalla crisi, il 20,8% delle donne under 34 occupate, le 174mila nascite nel 2014 (valore più basso dall’Unità d’Italia). Risuonino pure, purché si tengano bene a mente questi due punti. 1) La cosiddetta questione meridionale muta nel tempo, dunque è inutile scimmiottare tanto i toni paternalisti che hanno portato allo sfacelo («voler bene all’Italia significa smettere di spararle e sparlarle contro. E fare di tutto per guardarci con gli occhi di chi ci vuole bene. Non di chi si lamenta soltanto»), quanto quelli secessionisti neo-borbonici. Quest’ultimi sono stati finora stimolati, paradossalmente, dalla Lega Nord, velati di un amor patrio simulato. 2) SVIMEZ espone il quadro pietoso dell’economia del Sud, ma non bisogna scordarsi che alla base della «desertificazione industriale» ci sono soprattutto carenze umane.
Rispetto ai tempi di Gaetano Salvemini e Antonio Gramsci, qualcosa è cambiato. Su tutto, il tipo di emigrazione: dalla fuga delle braccia, a quella delle menti; se dall’Unità al boom economico erano operai e braccianti a cercare lavoro al Nord (estero o italiano che fosse), ora sono studenti in cerca di un futuro. Negli ultimi anni, poi, si è registrato un aumento delle migrazioni proprio all’interno della penisola stessa: nel decennio 2001-2014, si sono trasferiti al Centro-Nord 744mila meridionali – il numero non include le persone rientrate al Sud -, di cui 526mila under 34 e 205mila laureati. Su 10 persone che si sono spostate nelle regioni settentrionali, 7 hanno tra i 19 e i 34 anni. Il significato di questa statistica è desolante: per migliaia di ragazze e di ragazzi, costruire un futuro nei luoghi dove si è nati è umiliante. Ma non ci si può fermare a questa constatazione, per quanto amara essa sia, senza confrontarsi con ciò che ne è l’origine. Per quale motivo restare a vivere “a casa” dovrebbe essere umiliante? Perché lo Stato latita, favorendo la pervasività di fenomeni criminali – dall’abusivismo alla piaga dell’immondizia – apparentemente piccoli, ma paralleli a quelli mastodontici delle mafie; e perché non è soddisfatto il diritto di godere di una quotidianità sana, o per lo meno, non lo è diffusamente. Ora, purtroppo quest’ultimo aspetto (aspettare un bus per quindici minuti, e non più per un’ora; non assistere al sovraffollamento di lettini nei corridoi ospedalieri; buttare l’immondizia nei cassonetti della differenziata, e non più in una discarica a cielo aperto) è comunemente ritenuto meno dannoso della criminalità organizzata. L’efficienza di beni pubblici come trasporti, sanità, smaltimento rifiuti, il regolare funzionamento di ciò che costituisce la nostra quotidianità non assesterebbe forse il colpo più duro alle mafie? Tutto insomma è stretto in una rete di relazioni fra forze, che spingono nel baratro il Sud. E con il Sud l’Italia, citando il monito di Giuseppe Mazzini: «l’Italia sarà quello che il Mezzogiorno sarà».
Tuttavia, i problemi non sono solo economici. Al divario di reddito si aggiunge un divario culturale. Dietro a quella industriale, infatti, si cela una desertificazione umana, che anno su anno ha reciso «il filo della speranza», come formulato da Saviano nella sua lettera. A tal proposito, troppe volte si sono spese parole di condanna sull’indole dei meridionali, se ne è chiacchierato: dal classico sfaticati, ai più folkloristici mammoni, passionali, pigri, irrazionali, eccetera. È chiaro che il modo di affrontare la vita a Palermo non è lo stesso che a Roma o Milano, poiché bene o male alcune identità locali riescono a perdurare. Ma di quale Sud stiamo parlando? Il problema di paesi con pochissimi laureati e moltissimi Uomini e Donne, di città deserte a fine estate, di strade popolate da cani randagi, il problema di metà nazione a rischio di sottosviluppo permanente è il cinismo rassegnato. Questa è la vera responsabilità (attenzione, non colpa) delle persone meridionali. Educare al bello, a indignarsi per il sudicio, sarebbe la più rivoluzionaria delle indignazioni – a maggior ragione se, come al giorno d’oggi, mancano intelligenze brillanti alla guida dei maggiori partiti politici. Non è facile, questo no; ed è meno romantico di quanto possa sembrare, giacché significherebbe cercare di scardinare il nostro tempo di sorrisini compiaciuti e di favoritismi dissimulati.
È umano sorprendersi a pensare di frequente che «tutto questo è invincibile», alzi la mano chi non ha bisbigliato un «impossibile». Il romanzo I Viceré, di Federico De Roberto, si conclude emblematicamente con le seguenti parole: «No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa». Chi parla è uno dei personaggi principali, Consalvo Uzeda, nobile esponente di una famiglia catanese assetata di potere. Ecco, per concludere bisogna riaffermare la necessità di essere scettici. Mettere in discussione una struttura etica basata sull’egocentrismo significa, oggi, anche lottare contro se stessi. Non è vero che siamo in un’epoca post-ideologica: l’ideologia c’è eccome, ed è quella del prevaricamento (sociale, economico, culturale) senza scrupoli. Per amore del Mezzogiorno, che ne è vittima maggiore, e per amore della nostra intera società, che ne è la radice.
Andrea Piasentini
[…] felice tra culture diverse, e che è lacerato dalla divisione netta e non ancora rimarginata tra la cultura lenta del Sud e quella industrializzata del Nord, sia tra le regioni italiane sia in riferimento ad una […]