Durissima la breve vita di Anton Cechov (1860-1904): un’infanzia brutalizzata da un padre-padrone, la miseria nell’adolescenza, la scrittura di racconti a ritmi forsennati per guadagnare qualcosa e mantenersi gli studi, la laurea in medicina e la pratica della professione medica, la condizione di malato cronico di tisi, il matrimonio in età piuttosto avanzata con l’attrice Olga Knipper, celebrato in segreto e a soli tre anni prima della sua morte, la difficile convivenza con le donne di casa: moglie, madre, sorella… Strano destino, il suo: una volta raggiunto il successo, dovette vedersela coi giudizi impietosi di Tolstoj, far l’abitudine al fatto che molti suoi drammi alla prima rappresentazione subissero lo sfavore del pubblico, salvo poi essere compresi ed apprezzati tempo dopo, aver a che fare con un regista come Stanislavskij che spesso andava ben al di là delle sue intenzioni, enfatizzando il realismo presente nei suoi drammi.
C’è molto di Cechov nelle due figure di scrittori che compaiono ne Il gabbiano (scritto nel 1895, rappresentato a Pietroburgo l’anno dopo, e clamorosamente fischiato dal pubblico, salvo ottenere poi un grande successo due anni più tardi): l’adolescente Konstantin Gavrilovič Treplev, che mai conoscerà davvero il successo, e il maturo e affermato Boris Alekseevič Trigorin. Sono due dei tanti personaggi che animano il dramma: in modo simmetrico, due sono anche le figure di attrici, la debuttante Nina Michailovna Zarečnaja, facile all’infatuazione per il teatro e la veterana Irina Nikolaevna Arkadina, che ha già un grande avvenire dietro le spalle e che teme più di tutto il tempo che passa. Quest’ultima è anche la madre di Kostantin, ma per lei l’amore materno non è al primo posto nella scala dei suoi valori esistenziali.
Inutile tentare di dar conto della complessità della trama: basti dire che i fatti più eclatanti Cechov non li rappresenta in scena, che l’azione si dipana nel tempo (tra il terzo e il quarto anno intercorrono due anni e le vicende di Nina, Trigorin, Treplev vengono raccontate tra una chiacchiera e l’altra), che il gesto simbolico del dono dell’albatro, ucciso da Konstantin per Nina, segna il destino di quest’ultima, che, soprattutto, il tentato suicidio di Konstantin – anche questo solo raccontato – si realizza alla fine del dramma, tra l’indifferenza di tutti gli altri che giocano a tombola e la soverchiante risata di Arkadina, sempre e solo tutta concentrata su se stessa.
Una materia così complessa è stata magistralmente proposta dall’eccellente Compagnia del Teatro Stabile di Genova. Il regista, Marco Sciaccaluga ha un’evidente predilezione per Cechov: lo “legge” con grande accuratezza, fin nei minimi particolari (va segnalato il coraggio di adottare proprio la prima versione del dramma e di ricorrere alla fedele traduzione di Danilo Macrì). Con spietata nettezza Cechov emerge come nostro contemporaneo proprio rispettandolo filologicamente: rubli, copechi, veste in originale, come pure i difficili nomi propri russi, candele e lumi a petrolio, e, soprattutto, il lago sullo sfondo, in una suggestiva scenografia (al lago stregato, onnipresente personaggio muto del dramma, alla fine del Primo Atto il dottor Dorn attribuisce la responsabilità di tutto il nervosismo dei residenti).
Sciaccaluga riprende il giudizio scritto da Maksim Gorkij a Cechov stesso: «Vedete, a me pare che trattiate gli uomini col gelo del demonio» e lo integra così: «Il palcoscenico di Cechov è la forma più gentile, condivisa, ironica, di spietatezza. Il suo ̒Teatro della Crudeltà̉ è il più umano che io conosca». Della rappresentazione restano impressi nel ricordo molti gesti, molti momenti fatti vivere in modo straordinario dalla bravura degli interpreti. Come, ad esempio, le riflessioni di Trigorin su cosa significhi essere scrittore: si è posseduti da un’irrefrenabile smania, si teme il giudizio del pubblico, si sa benissimo, che per quanto ci si impegni, certi modelli restano inarrivabili, non si sarà mai né un Tolstoj (un nome certo non casuale, tenuto conto di quanto Cechov ne temesse il giudizio) né un Turgenev. Come quanto dice il moribondo Sorin – un bilancio apparentemente ironico, in realtà straziante della propria esistenza: «Voglio dare a Kostja il soggetto per una novella. Dovrà intitolarsi così: ̒L’uomo che ha voluto ̉ […] Da giovane volevo diventare un letterato e non lo sono diventato; volevo diventare un elegante parlatore ed ho sempre parlato in modo da far rabbia. […] Volevo prender moglie e non l’ho presa; volevo viver sempre in città ed ecco che finisco la mia vita in campagna; ecco tutto». Ancora una volta la vita al servizio dell’arte, ma non c’è alcun riscatto, alcuna nobiltà in questo, solo grande disperazione. Come, infine, quanto dice l’esacerbata Nina: «Adesso, Kostja, io so, io comprendo che nella nostra opera, sia essa di scrittore o di attore, l’importante non è la gloria, non il lustro, non ciò che sognavo, ma saper soffrire».
L’ incontro con Cechov fa riflettere su quanto sia difficile l’accordo delle diverse sensibilità degli esseri umani. Nel Quarto Atto Samraev, l’amministratore della tenuta, rammenta a Trigorin che gli aveva chiesto, due anni prima, di impagliargli il gabbiano ucciso da Konstantin: ma lo scrittore non lo ricorda assolutamente. Come può non ricordare quello che si era coscienziosamente appuntato, mettendone a parte Nina, la ragazza alla quale poi lui rovinerà per sempre l’esistenza: «Un soggetto per un breve racconto: sulla riva di un lago: vive fin dall’infanzia una giovinetta come voi; ama il lago come un gabbiano ed è felice e libera come un gabbiano. Ma giunge per caso un uomo, la vede, e, così tanto per passare il tempo, spezza la sua esistenza, come a questo gabbiano». Come fa Trigorin a non ricordare affatto quanto successo solo due anni prima? Sono, poi, sempre tesi e conflittuali i rapporti tra le generazioni, tra i vecchi e i giovani. Konstantin, nella lite violenta, che ha con la madre nel Terzo Atto, così sbraita: «Io ho più talento di tutti voi, se vuoi che te lo dica! Voi, da gente pratica, siete riusciti a strappare un primato nel campo artistico e ritenete giusto e vero solo quello che fate voi. Gli altri li schiacciate e li soffocate».
Gli altri, cioè chi viene dopo, i giovani. Se a “campo artistico” sostituiamo “ campo lavorativo, politico, ecc..” il risultato resta identico: gli adulti non accettano mai volontariamente di cedere il passo ai giovani, il ricambio generazionale è più auspicato a parole che reso possibile nei fatti. Ieri come oggi.
di Stefano Casarino
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