Romanzi come La scopa del sistema (traduzione di Sergio Claudio Perroni) non capita di leggerli spesso. In primo luogo per come è costruito. Il libro di David Foster Wallace consta di tanti capitoli con una fortissima autonomia interna che però non minano mai l’unitarietà del romanzo. Un po’ come gli abitanti di Cleveland, la città in cui è ambientata la storia, che solo quando sono in volo si accorgono che la loro metropoli è fatta a somiglianza del volto della diva Jane Mansfield.
Capitoli semindipendenti e di stoffa originalissima: trascrizioni di dialoghi, verbali, sedute terapeutiche, racconti cestinati di giovani scrittori depressi. Tanto materiale eterogeneo a voler racchiudere tutta la complessità del reale, un abbraccio quasi ossessivo, il sezionare meticoloso di un macellaio che nei dialoghi arriva a riportare anche i silenzi (puntini di sospensione) e il russare dei personaggi (fnuf). Uno sforzo così grande che non sembra il solito tentativo di dare una vernicetta di veridicità a una storia fittizia, semmai proprio il tentativo di trasformare la letteratura in realtà.
Vuoi perché la protagonista cerca disperatamente di scollarsi dalla carta – Lenore è stufa di sentirsi un personaggio: «È piuttosto che la vita è il suo racconto, è che in me non c’è niente che non sia raccontato o raccontabile. Ma se è davvero così, allora che differenza c’è, perché vivere?». Vuoi perché anche noi lettori fisici tridimensionali sembriamo assottigliarci e perdere di consistenza durante la lettura. Poiché se i dubbi di Lenore possono apparire quelli di un personaggio inventato, quando lei ci viene presentata nell’atto di leggere un racconto, è spontaneo pensare a noi che la leggiamo leggere. E allora che differenza c’è tra lei e noi? Un enorme scombuglio metaletterario in cui non si capisce cosa sia vero e cosa finzione, spettacolo voluto.
Nel dubbio gli avventori del bar Gilligan’s Isle applaudono. Se il gioco finisse qui, si potrebbe parlare di un semplice trastullo postmoderno di uno scrittore che sa di essere bravo, ma non è così. Foster Wallace concepiva questo accostamento tra piano finzionale e reale come un mezzo, non come il fine. Una volta che il lettore si rendeva conto di non essere poi tanto diverso dal suo alter ego di carta, poteva imparare pure la propria condizione. Una condizione di solitudine e infelicità. Il discorso di Wallace sulla letteratura come «antidoto all’infelicità» è celebre:
«Nel mondo reale tutti soffriamo da soli; la vera empatia è impossibile. Ma se un’opera letteraria ci permette, grazie all’immaginazione, di identificarci con il dolore dei personaggi, allora forse ci verrà più facile pensare che altri possano identificarsi con il nostro. Questo è un pensiero che nutre, che redime: ci fa sentire meno soli dentro».
E di solitudine e d’incomunicabilità ce n’è tanta ne La scopa del sistema. C’è quella del DIO, il Deserto Incommensurabile dell’Ohio, un deserto artificiale costruito per riallacciare il legame con la natura primordiale. C’è quella del magnate Norman Bombardini, una sorta di bestia mastodontica che vuole mangiare e ingrassare fino a occupare l’intero universo. Quella di una ventina di vecchi dell’ospizio che spariscono senza lasciare traccia, forse perché una traccia non ce l’hanno.
Quanto all’incomunicabilità, un pappagallo ripete e destruttura tutte le frasi che sente, problemi alle linee telefoniche fan sì che le chiamate vengano dirottate ai destinatari sbagliati.
Ed emozioni variabili, gioie e pianti, ma comunque autorecluse. Tante gelose monadi, tristezze solitarie che scorrono e non s’incrociano. Ecco la descrizione di uno dei numerosi racconti di un aspirante scrittore:
«Cioè, di come certe volte la gente sia ossessionata dai vicini di casa, anche dai figli dei vicini di casa, e arrivi a spiarli dalle finestre… e di come i vicini in questione spesso non sappiano niente di questa ossessione del vicino, perché ogni vicino è rinchiuso dentro la sua proprietà, la sua casa, circondato dalla sua staccionata. E di come tutto ciò che è significativo, significativo sia nel bene che nel male, rimanga privato».
La scopa del sistema fu il primo dei romanzi di Foster Wallace, primo di tre, prima che si togliesse la vita a soli 46 anni. È una proposta davvero nuova e costruttiva. Nella dedica dell’opera Wallace non lo chiamava nemmeno libro o romanzo: “progetto” lo chiamava.
Bruno Contini
[…] Romanzi come La scopa del sistema (traduzione di Sergio Claudio Perroni) non capita di leggerli spesso. In primo luogo per come è costruito. Il libro di David Foster Wallace consta di tanti capitoli con una fortissima autonomia interna che però non minano mai l’unitarietà del romanzo. Un po’ come gli abitanti di Cleveland, la città in cui è ambientata la storia, che solo quando sono in volo si accorgono che la loro metropoli è fatta a somiglianza del volto della […] Continua a leggere […]