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Su «L’ordine del tempo» di Rovelli, ovvero: tutto il tempo che ci manca

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6 minuti di lettura

È passato ormai un anno dall’uscita di un libro, L’ordine del tempo, scritto da un intelligente divulgatore, nonché, a quanto ne sappiamo, navigato ed autoritario fisico, come Carlo Rovelli. Il libro (180 pgg + note interessanti e utili; acquista), cosparso di immagini, ben scritto, anche se – talvolta – un pelino troppo retoricheggiante) è molto bello. Rovelli prende per mano il lettore e lo accompagna per un dedalo di stradine in quel labirinto che la fisica, da mo’, ha chiamato: tempo. Poi scoprite che il tempo non c’è. O, almeno così sostiene Rovelli (ma è in buona compagnia). È una specie di giallo nel quale il detective è a un tempo il maggiordomo: Rovelli fa la parte dell’investigatore, e insieme, del colpevole.

Scrivere del tempo

Il libro è pregevole, davvero, e lo consigliamo caldamente soprattutto a quei lettori che di fisica masticano qualche nozioncina dilettantistica o fisici quasi-professionisti che provano piacere a scoprire come funziona il mondo incapsulato in brevi lezioni di fisica (e, a quanto pare, di lettori così ce ne sono parecchi, dato che il libro – non L’ordine, ma Sette brevi lezioni di fisica – è stato tradotto in 40 lingue, come riportato sulla costola de L’ordine del tempo (e, tra parentesi, ciò vuol dire che tra i lettori di Rovelli c’è gente che parla il Min Nan, il Curdo, il Sondannese e il Kannada). Ma noi spostiamo la nostra riflessione ad un altro livello.

Tempo

L’ordine del tempo è l’ennesimo libro pubblicato da qualche anno a questa parte ad avere come oggetto il tempo. Ennesimo nel senso che la pubblicazione di saggi, romanzi eccetera concernenti il tempo è aumentata nel corso degli anni, diciamo, degli ultimi 3 anni (qualche esempio anche al di fuori della fisica: La rinascita del tempo, di Lee Smolin; Accelerazione e alienazione, di Harmut Rosa, ma inoltre Fuori controllo, di Thomas Eriksen e si potrebbe continuare) . Almeno, a noi così sembra. Ciò che ci chiediamo è: perché? Forse perché il tempo è un cruccio della fisica, e non solo della fisica, da 2500 anni? No, non ci basta questa risposta.

Sublimare

Se guardiamo alle condizioni di possibilità che regolano le produzioni discorsive, come diceva Michel Foucault, se ci chiediamo cioè il perché di un tale spesseggiare di libri sul tempo, la risposta che si palesa è inquietante. Forse che ne scriviamo tanto proprio perché, il tempo, ci manca? Alcuni storici sostengono – ipotesi non banale – che la letteratura amorosa medievale, tutte quelle cose che si studiano a scuola sull’amor cortese, la donna-angelo, la poesia trobadorica – ebbene, tutto ciò non sia altro che una sorta di proiezione delle frustrazioni dell’élite aristocratica, nonché un’idealizzazione dei loro desideri inconsci. Lo stesso diceva Schopenhauer di Petrarca: è perché Laura non ne voleva sapere che il nostro poeta scrisse così tanti bei sonetti. Freud chiamava questa cosa sublimazione: un desiderio inappagabile, di solito sessuale, prende di mira un altro oggetto, un surrogato, per scaricarsi. Laura non ci sta, scrivo poesie ed appago le mie brame.

Ora, se riportiamo questo discorso alla questione del tempo, non possiamo esimerci dal domandare: che ne è del nostro tempo per scriverne così ossessivamente? Che desiderio inappagato stiamo compulsivamente sublimando? A queste due domande, in effetti, non c’è risposta che valga come soluzione generale. E noi non vogliamo ricadere nei classici cliché che, universalizzando indebitamente, evocano entità astratte come la Società Odierna, la Nostra Epoca, eccetera.

Ci limitiamo a fare un passo in un’altra direzione, ed ampliare per così dire il discorso di Rovelli. Che il tempo ci sia o non ci sia, importa poco. Ciò che importa è che noi, meravigliosamente umani, il tempo lo sentiamo. Sentiamo che un’ora passata a fare cose belle scorre veloce, che un minuto passato col sedere sopra la stufa scorre lentissimo, che la fatica rallenta il tempo, il piacere lo accelera, e così via. E che la vita dal tempo non può prescindere: altrimenti saremmo animali, non uomini. Questo il problema: guardato dal di dietro, come una montagna prima di scalarla, il tempo pare infinito. Arrivati in cima alla vetta, si realizza della celerità con cui è trascorso. Cosa tragica. Lo scriveva Schopenhauer nei suoi Parerga e Paralipomena, ma poi è il seme stesso della filosofia. Fare buon uso del tempo, cosa più preziosa che ci è data, e che come un soffio ci sfugge dalle mani. Erano le parole che Seneca rivolgeva all’amico Lucilio in apertura delle Lettere: oh Lucilio, vendica te stesso – ossia, rivendica il tuo tempo, fanne buon uso. Il problema è tutto qui: cosa vuol dire farne buon uso? Di questo, i libri sul tempo, tacciono. A noi la risposta.

 

Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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