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Il pensiero, il mistero delle cose e il loro in sé

L'incontro tra l'«in sé» e il pensiero. Siamo veramente disposti a metterci in gioco andando verso l'abisso per scoprire il mistero?

11 minuti di lettura

Nel suo Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, il filosofo francese Quentin Meillassoux scrive: «non possiamo farci una rappresentazione dell’”in sé” senza che divenga un “per noi”, o come dice Hegel, non possiamo sorprendere l’oggetto dal di dietro».

Che cosa significa questa frase? Accampate risposte più o meno evasive, ciò che rimane è un prurito in testa. Non si potrebbe definirlo altrimenti: non è proprio un dubbio sulla verità o meno della sentenza, ma qualcosa di fastidioso da grattare via ricorrendo, dunque, ad un gesto poco filosofico sotto molti aspetti.

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Possiamo rappresentarci un «in sé»? La domanda resiste, e può ridursi a questa formula, dato che rappresentare qualcosa – qui sinonimo di «pensare qualcosa» – è subito un rappresentare da noi e per noi. Penso ad una casa: io la penso, la rappresento a me. Non c’è pensare senza un soggetto che pensa. Qui, però, non si vuole richiamare l’attenzione alla implicazione verbo-soggetto (questione altrettanto interessante, a dire il vero, che spinge ad esempio ad interrogarci sulla meteorologia o a chiederci se finisca il viaggio oppure il viaggiatore). Piuttosto, si tratta di notare un tratto esclusivo del pensiero: pensando, si scorge un orizzonte intrascendibile che sembra abbracciare ogni cosa, ogni altro verbo e soggetto.

Prendiamo un’auto, un innamoramento, il condomino scortese: ognuna di queste cose è pensata da noi in questo momento, fin da quando le abbiamo prese. Passa qualche momento e, quelle cose «sparite» forse per colpa di un calo di attenzione o nel rileggere gli ultimi passaggi, eccole che ritornano. Sempre entro l’orizzonte del pensiero. Ogni cosa, cioè, c’è ovvero è presente – e in tutti i modi della presenza (come ricordo, come attesa, come disponibilità sottomano, come faccia a faccia, etc.) – in quanto è pensata. Ma come? Io non penso sempre (anzi vorrei che fosse così!) e sicuramente non pensavo prima di essere nato. E che dire di quando non c’erano esseri umani sulla Terra, che potessero pensare? Noi vorremmo che il dirimpettaio dipendesse dal nostro pensiero, ciononostante la prossima riunione di condomino sarà la più netta smentita.

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Eppure tutte queste ipotesi, che dovrebbero suggerire una indipendenza delle cose dal pensiero, le stiamo pensando. Io so che le cose non dipendano da me, che ci sono anche se non le penso. Ma è veramente così? Su cosa si basa questa convinzione, dato che ogni cosa la incontriamo nel pensiero? Ogni cosa, dunque, è in quanto è pensata. Pensare non è quindi un verbo come un altro. Quando pensiamo, il «quando» svanisce come ogni precaria istantaneità. Anzitutto e sempre c’è il pensiero, al quale non sfugge nulla. Ogni limite al pensiero è posto dallo stesso pensiero e, in quanto tale, è già superato. Allora ha ragione Hegel: non c’è nessuna intimità, nessun segreto delle cose, nessun «in sé» per il solo fatto che, scrivendone o parlandone, lo pensiamo. Ecco sparito il bisogno di grattarsi. E allora, però, resta il prurito.

Torniamo dunque all’orizzonte del pensiero, a quella dimensione in cui in realtà già da sempre siamo. Si tratta davvero di una dimensione infinita che raggiunge tutto? Se l’in sé delle cose fosse una porta chiusa al pensiero, è pur vero che tale porta viene pensata, rappresentata, conosciuta: conosciuta, appunto, come quella cosa oltre alla quale il pensiero non può andare. La porta è, quindi, nota anche se chiusa, è nota come chiusa. Nondimeno la porta resta chiusa. Lo sguardo del pensiero, allora, si fa indiscreto: in quanto porta so che porta a qualcosa e che c’è qualcosa oltre la sua soglia. Inoltre, quello che ci sarà avrà una certa qualità o quantità, o sarà qualcosa di reale o soltanto possibile. Sarà una cosa, non un niente. Insomma, il pensiero sta già spiando dalla serratura. Tuttavia, questo equivale ad aprire la porta? Proprio come nel caso del futuro io posso conoscerne a priori alcuni aspetti e lo stesso futuro come una dimensione del tempo, ma di esso rimane comunque qualcosa di non noto. Che cosa non è noto? Che cosa c’è dietro la porta? Io lo vedo solo nel pensiero, di nuovo, cioè in tutte le congetture che escogito e quando, finalmente, lo scopro. Tuttavia è proprio nello scoprire, nell’aprire la porta, nello svelarsi del futuro che il pensiero impara il suo limite, pur nella sua onnipervasività. Non si tratta, infatti, di immaginare spazi inaccessibili o di rappresentarsi l’in sé come un sentiero sbarrato, ma di guardare allo svelarsi stesso delle cose e al loro venire al pensiero perché proprio nel loro farsi spazio delimitano il pensiero.

L’accadere delle cose, ovvero il loro irrompere nel pensiero, segna una discontinuità. Un vero e proprio evento a cui certamente siamo stati invitati, perché le cose le vediamo nel pensiero, ma che abbiamo contribuito solo in parte ad organizzare. Chi ha invitato le cose? Chi ne ha chiamate alcune e lasciate a casa altre? Cosa accade in questo evento? Qual è il suo significato? Il mistero dell’in sé non sta nel chiedersi se «prima» queste cose non ci fossero, perché ormai abbiamo visto che questo «passato» è già da sempre ricompreso nello sguardo del pensiero (questo naturalmente non esclude che il pensiero non abbia una temporalità diversa da quella scandita dal passaggio prima-dopo). Il mistero è, dunque, entro lo stesso mostrarsi delle cose e non nel loro nato nascosto, nel «di dietro».

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Abbiamo infatti riconosciuto che questo mostrarsi avvenga nel pensiero, ma a partire da dove? Dove e quanto comincia il mostrarsi? Dove e quando finisce? Il tempo e lo spazio di questo mostrarsi si perdono in un vero e proprio abisso. Ce ne accorgiamo, che stiamo di fronte ad un abisso insondabile, perché non sappiamo neanche come domandare il comparire delle cose al pensiero: ben altro intende la domanda sul perché ci siano le cose (anziché il nulla) rispetto alla domanda sulla loro manifestazione, sul loro mostrarsi al pensiero. Le cose sono qui per noi, come sembra dire quella scomoda citazione? Sono qui per essere pensate? E se il pensare dicesse, in qualche modo, di più del comprendere le cose già da sempre in un orizzonte? E se l’essere stesso significasse qualcosa di più della semplice trasparenza al pensiero? Certamente ogni significato del pensiero viene da noi pensato, dunque non usciamo dal pensiero. Ma è altrettanto chiaro che nel domandarci il significato del pensare o addirittura il suo compito, stiamo tracciando una distanza interna al pensiero ovvero una sua profondità e, inevitabilmente, una superficialità del pensiero.

Di fronte ad una simile ulteriorità, di nuovo, ci troviamo privi di guide perché a poco serve riconoscere che stiamo comunque ancora pensando, che stiamo cioè dentro quelle regole del pensiero intraviste nel momento in cui il pensiero cercava di aprire la porta. «Ulteriorità»: c’è un «ultra» ovvero un passo avanti, quasi gratuito, in direzione di quella stessa gratuità misteriosa dell’accadere delle cose al pensiero. E già non si tratta più di pensare solamente: l’ulteriorità ci chiede di essere responsabili, ovvero di rispondere al mistero, mettendo in gioco la nostra stessa decisione di andare verso quell’abisso. Non è più una questione di correttezza, di inevitabilità: varcata la soglia dell’ulteriore c’è solo l’assunzione responsabile del proprio azzardo. Riuscirà questo azzardo? Ecco che si incontrano, con questa domanda, l’in sé e il pensiero.

Marco Cavazza

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