Con l’arrivo dell’inverno, la stagione in cui le vette sono ancora più affascinanti, si risveglia anche nei più pigri il desiderio di montagna. Forte è il richiamo verso la durezza della roccia e il candore della neve. Anche il cinema si è spesso servito del carisma delle alture per raccontare le sue storie. Scenario di storie avvincenti, metafora di grandezza e pericolo, rappresentante della maestosità e del mistero, baluardo di solitudine e ascetismo. Il connubio tra la montagna e il cinematografo è senza dubbio tra i più potenti e profondi. L’articolo ne osserverà le varie declinazioni: tragica e oscura, serena e poetica, intima e spirituale.
Nessuno può sentirti urlare sulla cima della montagna
Subdola e influente, cupa e misteriosa, isolata e fredda. La montagna di Shining è la protagonista più potente del film di Kubrick del 1980. L’Overlook Hotel, situato ai suoi piedi, è un ambiente inospitale e imperscrutabile, che nasconde segreti avidamente custoditi dal silenzio ghiacciato del gigante roccioso. La vivacità della primavera e dell’estate, pullulanti di vita e dei rumori della natura sono solo un lontano ricordo. Uno strato di candida neve attutisce la nuda parete spigolosa, rendendo la montagna, al tempo stesso, affascinante e terrificante.
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La solitudine, se immaginata descritta attraverso la cinepresa, avrebbe sicuramente queste sembianze. Follemente estrema, la montagna di Shining non lascia scampo a coloro che decidono di abitarla nella sua forma più inospitale. Così succede a Jack Torrance, incaricato di custodire con la sua famiglia un hotel che d’inverno viene popolato unicamente dagli spiriti e dalle presenze del passato. Il turbinio di pazzia che ne consegue è tra i più famosi della storia del cinema e trova la migliore ambientazione nel silenzio della montagna esanime.
La cima: convergenza di uomini e spiriti
Teatro di guerra e pacificazione è la montagna di Sette anni in Tibet. Diviso tra conflitti interiori ed esteriori, Heinrich Harrer (Brad Bitt), affronta la scalata delle vette dell’Himalaya fino ad arrivare alla città santa e proibita di Lhasa. Qui incontra il Quattordicesimo Dalai Lama e le alture del Tibet diventano territorio di condivisione e mutuo apprendimento. La vita familiare del protagonista frana e si sgretola sotto il peso del dovere, ma sarà proprio l’inospitalità delle cime brulle, rocciose ed innevate a rimettere l’uomo in contatto con se stesso.
In questo film di Jean-Jacques Annaud del 1997 la montagna è sinonimo di un percorso. Catartica nella sua semplicità, la scalata è il momento della folgorazione spirituale. Solo, lontano dalla sua famiglia e dalla guerra, Harrer viene in contatto con l’inaspettato. La mente libera, gli ampi spazi aperti, la luce e l’aria più nitide che mai permettono alla sua anima di respirare. Le cime del Tibet, con la loro esoticità, aiutano il distacco dall’unica realtà prospettica in cui il protagonista è incastrato. Le sommità diventano il luogo, sia fisico che trascendentale, della purezza e della rigenerazione. L’Himalaya si trasforma, attraverso la cinepresa, nella culla della vita.
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