Riprodurre la realtà: le origini
Paradossalmente, la storia della fotografia trova le sue origini nel buio. Dall’idea di trasmettere una presenza in assenza. Nacque vittima di un destino da cui non riusciva a separarsi: quello dell’«immagine latente», ovvero la teoria secondo cui un oggetto sensibile può riprodurre un’immagine del reale, ma impossibile da osservare perché visibile solo nell’oscurità. Un vero e proprio ossimoro, un’impossibilità che nasconde le proprietà di molti agenti sensibili, troppo effimeri e fugaci.
Questo fenomeno fisico divenne chiaro nel momento in cui la parola «immagine» acquisì un significato più chiaro: allo stesso tempo rappresentazione di un oggetto, sembianza, ombra, spettro, idea.
E’ proprio questo strana manifestazione della fisica del reale che spinse a teorie ed esperimenti sempre più rivolti alla creazione e risoluzione di un’immagine stabile e duratura.
Per la teoria si può tornare indietro fino al X secolo, con Alhazen, grande scienziato persiano che, partendo dallo studio del globo oculare, descrisse per primo, con grande anticipazione ed esattezza, come la luce, passando attraverso un piccolo foro (come la pupilla) poteva riprodurre l’immagine di una scena esterna, su una parete o su uno schermo (fig.1).
Tra i precursori teorici non possiamo tralasciare il genio, Leonardo da Vinci, che tra i suoi studi ci pensò e ripensò più volte: «come si può imprimere il presente su un supporto?». Di questo ci sarà tempo di parlare.
Joseph Nicéphore Niépce e i suoi studi sulla luce
Poi, un giorno, nel 1797, un inventore, rampollo di una famiglia borghese, iniziò a interessarsi ai fenomeni della luce fino a far diventare la sua teoria, una pratica realizzabile: Joseph Nicéphore Niépce. La sua passione nasce dalla litografia e sfocia nella volontà di produrre un’immagine senza l’uso dell’intervento umano che rimanga stabile e che rappresenti la realtà per memoria postera. La volontà di far trasparire la téchne nel senso di «tecnica», di «arte», di «perizia», di «saper fare», dentro ad un oggetto.
All’inizio fu una magia, poi un esperimento, ancora un gioco per poi cominciare ad avere una funzione sempre più pratica. Solo negli anni 1826-27 ottenne i primi risultati di ciò che noi chiamiamo «fotografia», che fino allora aveva tanti nomi quanti erano i suoi precursori.
L’amore per le invenzioni, per il bitume, l’argento, la vernice e l’alcool portarono Niépce a studiare sempre più da vicino l’elemento luce, fino a fare di questo elemento la sua stessa vita.
«Vista dalla finestra a Le Gras»: la prima fotografia della storia
Il primo risultato ottenuto può rassomigliare più a una lastra sporca e rovinata che a una fotografia – per come le intendiamo oggi -, anche se, ad uno sguardo più attento si possono identificare le pareti degli edifici e i tetti spioventi ritratti nell’immagine (fig.2). Questi sono i soggetti, le stesse figure che vediamo nella prima vera fotografia della storia intitolata Vista dalla finestra a Le Gras (Point de vue du Gras). Mosso dal desiderio di realizzare un’arte capace di riprodurre fedelmente la realtà, continuò i suoi esperimenti, conclusisi solamente con la sua morte datata 1833.
Per arrivare al suo primo grande risultato, decise di abbandonare il cloruro d’argento, troppo instabile, e di concentrarsi su un altro agente che, invece di oscurarsi alla luce del sole, presentasse effetti d’indurimento: scelse il bitume di Giudea, una specie di catrame e i risultati che ottenne, sono visibili tutt’oggi (fig.3).
L’opinione condivisa dell’esposizione lunghissima di 8 ore permise di osservare l’illuminazione degli edifici su entrambi i lati. Da qui, il «doppio sole di Niépce», il suo ineguagliabile successo.
La realizzazione di queste immagini, chiamate da lui Point de vue, introdusse idealmente il concetto dello sguardo fotografico sul mondo, compresa la sua parzialità e soggettività insite nei suoi punti di osservazione. Introdusse un mondo di rappresentazione e presentazione che non ha ancora smesso di esistere e di ri-identificarsi.
L’oblio e la riscoperta di Joseph Nicéphore Niépce
Nell’evoluzione della sua storia, molti sono stati i nomi che hanno cercato di portare via il primato indiscutibile all’inventore francese. Dopo la sua morte, dopo l’amicizia e il successo di Daguerre, Vista dalla finestra a Le Gras ha subìto un ingiusto momento di oblio fino al 1952, quando venne ritrovata da Gibbon Pritchard; da qui il suo rafforzamento, fino ad oggi in cui è conservata come reliquia – monitorata, stabilizzata e in un habitat privo di ossigeno – all’Università del Texas ad Austin.
Finalmente il giusto riscatto per l’occhio di Joseph Nicéphore Niépce. Una visione sempre più chiara sul mondo.
La scoperta che ho fatto, e che indico col nome di eliografia, consiste nel riprodurre spontaneamente, mediante l’azione della luce colle digradazioni di tinte dal nero al bianco, le immagini ricevute nella camera oscura
Sono queste le parole che l’inventore usò per annunciare al mondo la sua scoperta, anche se, odiernamente, il ricordo del primo procedimento fotografico è ancora slegato dal suo nome, in quanto il «dagherrotipo» si riferisce proprio a Louis Daguerre, surclassando infaustamente la figura di Niépce (fig. 4).
Dal «cortile di Niépce» e dalla sua La table servie (fig. 5) ad oggi sono passate tante voci, tanti sguardi, punti di vista diversi che hanno forgiato l’intimo significato della «fotografia».
Critiche allo «strumento cattura luce»
Interessante è la visione baudelariana, apparentemente carica di accuse rivolte proprio a quel nuovo «strumento cattura luce». L’estrema facilità produttiva, tale da non richiedere alcun intervento manuale da parte dell’autore, e poi ancora la resa troppo speculare e oggettiva della realtà stanno alla base della sua critica. Questo è ciò che Baudelaire tanta di spiegare nel 1859 davanti alla nascita di questa nuova forma espressiva. L’impossibilità di considerare arte un’immagine che si presenta come impronta speculare della realtà si evolve nella storia, passando inevitabilmente per il ready made di Duchamp (fig. 6), diventa un elogio alla fotografia digitale, perché possiede quelle stesse caratteristiche che Baudelaire sosteneva mancassero alla fotografia analogica, la possibilità d’intervento, l’arte della mano umana.
«Rappresentazione» e «presentazione» da Joseph Nicéphore Niépce in poi si alternano, si scambiano, si influenzano e creano l’infinita geografia dell’immaginario umano.
Interessante ricordare il primo esemplare italiano, creato con estremo successo nel laboratorio ottico di Alessandro Duroni, che diventa, da subito, un lavoro prezioso, in grado di acquistare maggior valore con il passare del tempo. Oggi le prime vedute reali della città di Milano sono sue. (fig. 7-8)
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