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l'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica

L’aura nelle nuove tecnologie secondo Walter Benjamin

Nel fondamentale saggio «L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica», Walter Benjamin per primo tematizza il “problema” dei nuovi media nell’arte, in particolare fotografia e cinematografia

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5 minuti di lettura

L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, scritto in varie versioni – nessuna delle quali definitiva – dal filosofo tedesco Walter Benjamin tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, è un classico che per primo tematizza il “problema” dei nuovi media nell’arte, in particolare fotografia e cinematografia.

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L’aura

Per fare ciò, Benjamin affronta un focus principale, che da (quasi) sempre accompagna le opere d’arte e il loro riconoscimento di valore: l’aura. Questa viene definita dal filosofo come «un singolare intreccio di spazio e di tempo; l’apparizione unica di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina». È evidente sin da subito, dunque, come quello dell’aura sia un concetto complesso e variamente interpretato che si accompagna a una serie di altri temi come quello dell’autenticità, della bellezza, dell’istinto e si oppone, idealmente, alla riproducibilità tecnica che questi media moderni hanno portato nel mondo dell’arte. In linea di principio, infatti, «l’opera d’arte è sempre stata riproducibile. […] Ciò che gli uomini avevano fatto ha sempre potuto essere rifatto dagli uomini». Come insegna Kant, infatti, ciò che non può essere imitato è la genialità che risiede nell’artista e si espone nell’opera, ma le tecniche sono perfettamente imitabili e riproducibili.

L’hic et nunc

Ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, l’autore introduce subito il concetto chiave della sua trattazione con una certa problematicità, che include quell’atteggiamento ambiguo che lo stesso Benjamin tiene riguardo a ciò che cambia nella storia dell’arte passata. Questa non può, infatti, essere vista solamente come un progresso positivo: le cose sono dialettiche, quindi non univoche, e sono le zone grigie a contenere la verità. Elementi fondamentali che accompagnano l’aura sono hic et nunc dell’opera d’arte, ovvero la sua esistenza unica e irripetibile in un luogo e in un tempo, il qui e ora.

«Proprio in questa esistenza irripetibile, e in nient’altro, si è compiuta la storia a cui essa è stata sottoposta nel corso del suo perdurare»: su questa esistenza unica, legata a un luogo e un momento, esercita i suoi effetti la storia. Benjamin allude qui al nostro rapporto con la tradizione: se un’opera è stata dipinta per un luogo e un tempo, allora nel corso della storia, che è anche il corso della sua storia, questo oggetto acquisisce momenti che lo interessano (storia della ricezione). Fino all’invenzione della fotografia, tutta questa si è coagulata intorno a questo quadro e costituisce la sua aura. In questo senso, ogni opera tradizionale, secondo l’autore, rappresenta una testimonianza del momento e del luogo in cui è stata creata.

aura
Veronese, Nozze di Cana (fonte)

Questa profondità storica con la riproducibilità tecnica diventa enormemente problematica. Sono concetti messi molto in discussione, in particolare dalle tecnologie a noi contemporanee. Emblematico è, in questo senso, il caso dell’enorme tela delle Nozze di Cana del Veronese, conservata al Louvre ma riposizionata, in una copia ad altissima risoluzione – tanto da riuscire a percepire le pennellate – nel luogo per il quale era stata realizzata, ovvero il refettorio dell’abbazia di San Giorgio Maggiore a Venezia. Stando strettamente alla regola del qui e ora, infatti, quasi tutte le opere musealizzate, in particolare quelle antiche, certamente non realizzate per essere esposte in un’istituzione, perderebbero l’aura, cosa solo in parte vera. Sono quindi gli ulteriori sviluppi, successivi a Benjamin, a mettere in discussione il suo saggio.

L’autenticità e la società di massa

L’autenticità, che in qualche modo si pone ne L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Benjamin quale sinonimo di aura, o comunque a strettissimo contatto, è per il filosofo l’insieme di tutto ciò che fin dall’origine dell’opera d’arte può venire tramandato alle generazioni future. Con la riproduzione vacilla dunque la profondità storica dell’opera e la disponibilità apparentemente senza condizioni o limiti di immagini o suoni cambia la nostra capacità di percepirli. La vicinanza tra il pubblico e l’opera, grazie alle sue riproduzioni, sostanzialmente si azzera, eliminando però di conseguenza anche l’autorità dell’opera, il peso della tradizione. In questo senso si può richiamare il mitologico gioco erotico tra eros e bellezza: se sparisce la tensione tra i due fattori, il peso dell’opera viene a diminuire. Ciò diventa poi evidente quando ci si ritrova materialmente di fronte all’opera e si percepisce, in molto casi, una profondità, un’aura appunto, che una fotografia della stessa, per quanto dettagliata, non può restituire.

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Non è un caso che la tecnica riproduttiva e il suo utilizzo all’interno del panorama artistico coincidano con la nascita delle società di massa. Tecnologia, sociologia ed economia si intrecciano fittamente, andando a moltiplicare un unicum, sostituendo a un evento singolo e irripetibile una sua grande quantità e avvicinandolo potenzialmente a chiunque lo voglia in qualsiasi momento. L’opera ora non è più nella sua unicità, per lo spettatore singolo in un rapporto uno a uno. La riproduzione rende attuale l’opera tirandola fuori dalla tradizione in cui è nata e la mette di fronte allo spettatore, che si moltiplica. Ma bisogna tenere conto che l’idea originale di aura è di una sensazione sottocutanea, un qualcosa che si sente, che si intromette nella corporeità di chi la esperisce. Per questo non si può percepire o analizzare razionalmente, non è un’apparizione spaziale visibile.

Sulla base di ciò, è facile comprendere come, dal punto di vista di Benjamin, la sua epoca stesse vivendo un’irreversibile decadenza dell’aura. Il rapporto con il soggetto dotato di aura non può essere instaurato a distanza con una sua riproduzione, ma è possibile soltanto nel momento in cui lo spettatore entra in rapporto privato con quell’oggetto. La massa e l’intensità dei suoi movimenti impediscono largamente, di conseguenza, la percezione dell’aura. La nuova esigenza della società moderna, però, non sembra più essere la ricerca e l’esperienza dell’aura, quanto l’avvicinamento dell’oggetto e «la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione». Quando tutto è riproducibile, non ha più senso ricercare l’unicità.

Fotografia e cinema

Il traguardo ultimo di questo sviluppo tecnico e artistico, nonché la messa in discussione della tesi benjaminiana, si ha con la presa di consapevolezza e autonomia da parte degli stessi media che avevano messo in crisi il sistema. Fotografia e cinematografia, infatti, si inseriscono, non senza resistenze, all’interno delle arti riconosciute e sviluppano un proprio linguaggio. La particolarità sta però nella caratteristica principale di queste nuove arti: la loro riproducibilità intrinseca. Cinematografia e fotografia nascono come arti riproducibili tecnicamente, senza che ciò comporti la perdita dell’aura, come invece è o può essere per le arti più tradizionali. La pellicola sulla quale esse si basano è per sua natura un mezzo che non solo consente ma prevede la copia di sé.

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Ciò comporta qualcosa che fino ad allora si era soltanto sfiorato nell’arte, ovvero l’emancipazione dell’opera dalla sua esistenza nell’ambito del rituale. L’aura infatti è intimamente legata all’origine rituale dell’arte e dei suoi oggetti. Il cinema, invece, è per eccellenza l’arte che va incontro alle masse, creata per esse, anche quando è di altissimo livello. Lo richiede la sua natura, il suo processo produttivo e di diffusione. «Nell’istante in cui nella produzione dell’arte viene meno il criterio dell’autenticità, in quel momento si trasforma anche l’intera funzione sociale dell’arte», così come cambia il modo di percepirla. Chiaramente affermata da Aristotele, l’arte ha sempre avuto una funzione sociale, inizialmente basata sul rituale, ora sempre di più sulla politica. Ciò rappresenta un salto di qualità per Benjamin, che è fattibile però soltanto in parte, in quanto il senso di ritualità si trasforma profondamente ma certamente non scompare dall’arte, per quanto politica si possa fare.

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Rebecca Sivieri

Classe 1999. Nata e cresciuta nella mia amata Cremona, partita poi alla volta di Venezia per la laurea triennale in Arti Visive e Multimediali. Dato che soffro il mal di mare, per la Magistrale in Arte ho optato per Trento. Scrivere non è forse il mio mestiere, ma mi piace parlare agli altri di ciò che amo.

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