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Pensiero complottista

Archeologia e applicazione del pensiero complottista

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31 minuti di lettura

Anche la pandemia da Covid-19 non è stata risparmiata dalle speculazioni complottiste, alimentate da politici, giornali, influencer e a volte addirittura scienziati. Per citare un esempio, l’amministrazione Trump insieme alla destra italiana hanno rilanciato la tesi secondo cui il virus sarebbe stato prodotto in laboratorio dall’Istituto di virologia di Wuhan, da cui sarebbe poi sfuggito. Jennifer Guerra, in un approfondito articolo circa le teorie del complotto intorno al SARS-CoV-2 pubblicato su The Vision, riporta che «la bufala ha origine dalla pubblicazione di un articolo non sottoposto a peer review di due ricercatori indipendenti sul social network per accademici ReserchGate». L’articolo dei due ricercatori non sosteneva che il virus fosse stato prodotto artificialmente, ma ipotizzava che fosse fuggito dal laboratorio, eppure la notizia è stata rilanciata da vari giornali britannici e presto s’è diffusa in tutto l’Occidente. Ma da dove trae origine il pensiero complottista? Qual è il suo funzionamento?

Nel presente articolo tratteremo sia delle condizioni di possibilità del pensiero complottista sia della sua origine empirica. Il pensiero complottista verrà dunque trattato come un dominio mentale definito e determinato, mentre la sua controparte originaria, il suolo donde sorge, ovvero il senso comune, verrà trattato come indeterminato a priori della mentalità complottista. Questo ribaltamento, che lascerà nell’indefinito le caratteristiche e i moduli del senso comune, benché annebbi in un certo senso la chiarezza del risultato, ha come vantaggio la considerazione del pensiero complottista nella sua positività, ossia come modulo cognitivo determinato e peculiare. Questo metodo non vagheggia né dispone il fenomeno del complottismo in uno stato di minorità o deformazione confronto al senso comune, ma tenta di definirne la peculiarità epistemica e tracciare il suo limite conoscitivo.

Il pensiero complottista e il senso comune

In generale, si può ritenere che il complottismo come sistema di credenze trovi il suo terreno in un certo tipo di mentalità, i cui moduli operativi, cognitivi e di riconoscimento sono la base funzionale del complottismo stesso. Ciò significa che senza un certo tipo di identità culturale e di formazione cognitiva, ossia senza un certo tipo di società, col suo orizzonte conoscitivo e le sue pratiche reali di addomesticamento, il complottismo non attecchisce né sorge. In questo senso rappresenta un indice culturale.

Si può parlare di una cattiva comprensione della realtà, di un’errata interpretazione? Non è forse qualcosa di più radicale, come una perversa radice, l’essenziale idiosincrasia delle coordinate epistemiche? Credere in una teoria del complotto implica un’errata valutazione del mondo, ma non è l’errata valutazione del mondo che distingue il complottismo da una teoria altra, seppure falsa. La falsità non è ciò che differenzia fra teoria del complotto e teoria scientifica, o filosofica, o speculazione. È piuttosto l’a priori interpretativo a mutare: cambia qualcosa che sta alla fonte del teorizzare in quanto tale, ossia fra teoria del complotto e teoria altra mutano il cosmo mentale, le coordinate e le funzioni del locutore. Il complottismo è un approccio peculiare al mondo.

Il terreno cognitivo del complottismo è il medesimo del senso comune, ma, si potrebbe dire, rappresenta un territorio singolare rispetto all’ampio strato del senso comune, una cittadella peculiare, che si mette in competizione con lo stesso terreno che lo genera. Giungere a credere in una teoria del complotto, insieme alle implicazioni che essa comporta, significa cambiare abito di risposta verso il reale, praticare una pratica diversa di vita, elidere il senso comune donde nasce. In questo senso rappresenta un dominio a sé, benché originato dal substrato cognitivo e interpretativo condiviso fra complottisti e non complottisti. Il complottismo agisce come controcanto del senso comune, come compagno oscuro: benché generata da questo, la mentalità complottista, dacché è, si mette in competizione col senso comune per instaurare i suoi moduli interpretativi; il complottismo è una conseguenza specifica del senso comune della nostra cultura, ma ne è al contempo in competizione.

Postilla su complottismo e senso critico

Dire che i complottisti abbiano poco senso critico è una semplificazione, benché spesso azzeccata. Non si spiega difatti come sia possibile l’esistenza di intellettuali che ritengono vere certe bufale, o teorie del complotto; non si comprende l’esistenza di una comunità di scienza di frontiera che ritiene la teoria della relatività falsa, a volte frutto di un complotto giudaico; non si capisce come un’intera nazione abbia potuto credere al mito della razza ariana e del dominio giudaico.

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Ci deve essere qualcosa di più sottile, un impulso crudele e autoconsolatorio, che spinge gli individui, a volte intere comunità, ad abdicare al buon senso per instaurare sul mondo il proprio pensiero desiderante. Ridurre il complottista ad analfabeta, benché spesso possa risultare vero, non compie alcun passo verso la comprensione dell’origine e del funzionamento della mentalità complottista; piuttosto oscura il problema dietro a vocaboli ambigui e irriflessi, la cui funzione interpretativa è un mero accorciare la strada verso la soluzione. Ad esempio, parlare di una predisposizione del complottista verso il complotto è un taglio della questione circa l’origine del pensiero complottista, una scorciatoia eziologica che non dice nulla intorno alle cause reali in cui complottista e teoria del complotto sono immersi, né spiega la funzione che detta teoria ha per il soggetto, ma si limita a ipostatizzare il problema, rendendolo un dato di fatto e non l’emergenza di pratiche concrete.

Il rimosso della morte di Dio e la teleologia

Il complottismo compensa motivi esistenziali incerti, instaura, ad esempio, un sentimento di sicurezza e un senso di controllo laddove sicurezza e controllo mancano. La riconduzione di una causa naturale a un agente risponde esattamente a questa mancanza, poiché situa nella necessità cieca e meccanica una coscienza, la quale ha il duplice compito di significare (dare un senso) e di normare, tramite le coordinate di buono e cattivo, colpevole e meritevole, un evento insensato, essenzialmente naturale.

Addurre un agente laddove vige la causalità è una riconduzione dell’ignoto al noto, l’instaurazione di una spiegazione più facile (perché quotidianamente prima) e moralmente soddisfacente (perché introduce il binomio colpa/merito laddove è assente). In questo senso esercita un fascino che promette di soddisfare non solo le esigenze epistemiche, ma anche sociali e morali. Il complottismo introduce un fantasma nel mondo, una finalità negli eventi senza scopo, ossia ricalibra una prospettiva smembrata, essenzialmente finita e assurda, significando nuovamente il mondo designificato dalla scienza e dall’Illuminismo.

In un articolo sul perturbante, Sergio Benvenuto ipotizza che il fenomeno sia un sottoprodotto dell’Illuminismo e della sua mentalità. Potremmo fare un simile discorso circa il complottismo, senonché quello si riferisce a una fortunata minoranza, che ha rimosso il diabolico dalla coscienza, sotterrandolo nell’inconscio, questo è proprio di una più ampia comunità composta da persone che non sono riuscite a superare la sparizione di Dio dall’orizzonte della contemporaneità.

Imporre un agente nel mondo naturale significa fare un nuovo mondo, costruire il mondo dietro al mondo. È, nel complottismo, l’inserimento laico e moderno di forze religioso-superstiziose epurate della loro soprannaturalità laddove la scienza e il senso comune non vedono altro che fenomeni naturali e spiegabili. Forse anche il senso comune vi intuisce del tragico, dell’allegorico, del perturbante, del simbolico, eppure non si lascia trasportare nella deriva semiotica dalle varie coincidenze e analogie, dal sentimento dell’onnipotenza del pensiero; piuttosto resiste nel buon senso della spiegazione, neutralizza il carico perturbante all’interno dei modelli epistemici quotidiani. Il complottismo, invece, vive il rimosso della morte di Dio, tenta un ritorno del modello epistemico cardine della teologia, lo rende immanente, empirico, moderno, presente.

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Il perturbante per il senso comune può essere un ottimo materiale estetico, ma permane in un tracciato opposto a quello conoscitivo, instaura una spiegazione non determinante dell’evento, ossia non scientifica, che ha la sua utilità nella formazione della coscienza dell’uomo, non nella formazione del suo complesso conoscitivo. Il punto del pensiero complottista è quest’ingerenza del perturbante nell’epistemico, questa fallacia circa le capacità del pensiero e le sue regole. Se un evento tragico come la pandemia di Covid-19 può far scaturire importanti riflessioni circa la statura dell’uomo, dell’Occidente, l’assurdità dell’esistenza, l’assurdità di essere enti morali e biologici ad un tempo, essa, all’interno del buon senso, non svolge alcun ruolo precipuamente conoscitivo, ma si limita ad essere simbolo, soggettivo o intersoggettivo, di una comunità spirituale. Ma nella mente del complottista la simbolicità dell’evento assume un ruolo determinante, entra nella sfera dell’episteme, come riferimento conoscitivamente discriminante.

Il complottista come doppio escluso

In una delle pagine cruciali di Della certezza Ludwig Wittgenstein scrisse:

«Che noi siamo perfettamente sicuri di questa cosa [che la terra sia tonda], non vuol dire soltanto che ciascun individuo è sicuro di quella cosa, ma che apparteniamo a una comunità che è tenuta insieme dalla scienza e dall’educazione.»

Fino a un certo punto della contemporaneità il complottista è stato tenuto in un doppio stato di esclusione: innanzitutto dagli assertori del senso comune, che per preservare la presunta purezza del discorso hanno escluso dall’informazione mainstream e dall’establishment istituzionale il discorso complottista e la sua mentalità; in secondo luogo dalla teoria del complotto stessa, che esclude il complottista dall’accesso reale all’evento e lo porta a un minore interesse verso la cosa pubblica.

Ciò che del complottismo è oggi integrato nel discorso pubblico non è il contenuto di una determinata teoria del complotto, ma il modulo operativo della stessa mentalità complottista, il ricorso euristico al suo metodo epistemico. Le singolari teorie che di volta in volta emergono, la loro diffusione e pubblicità non sono che bulbi di un rizoma operativo, di un modo di praticare la realtà che è il nocciolo del complottismo, la matrice del problema.

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In televisione si invitano complottisti o sostenitori di teorie parascientifiche e li si mette a fianco di scienziati o esperti, indirettamente legittimando il locutore di teorie del complotto. Alcuni giornali hanno fatto della propria deontologia carta straccia, pubblicando aberrazioni linguistico-mentali; l’internet, in virtù della sua orizzontalità, dispone senza distinzione informazioni e tesi o argomenti complottisti, indifferenziandone le validità. Nella contemporaneità s’assiste a un divenir comune del pensiero complottista, finalmente penetrato nel mainstream mediatico e nelle istituzioni. Ciò che va a cambiare circa la posizione del complottismo per il senso comune è il suo statuto, da escluso a integrato, donde s’assiste a una convalida del pensiero complottista tout court, il quale prende il rango di spiegazione possibile, alternativa alla spiegazione scientifica o comune.

L’integrazione del pensiero complottista nel senso comune ridefinisce il senso comune stesso, conferisce alla forza disgregante e oscura che lo accompagna legittimità. Ciò che prima era un ospite inquietante, il refuso resistente di una mentalità sorpassata, diventa ora amico o coinquilino da accettare in quanto opinione alternativa. Quella «comunità che è tenuta insieme dalla scienza e dall’educazione» è sorpassata, non indica più la matrice del nostro senso comune, ma diviene modello di una comunità perduta. Il nostro senso comune patisce uno smottamento tellurico e integra nel suo patrimonio cognitivo ciò che dapprima era bandito. La certezza che la Terra sia tonda, nel nostro caso che il Covid-19 sia una piaga naturale, naturalmente prodotta dall’incessante metamorfosi della natura, perde la sua immediata evidenza dacché perde sovranità il senso comune che l’ha prodotta, donde quell’immediata evidenza si scopre mediata, costituita da un orizzonte conoscitivo determinato da specifiche pratiche quotidiane. Il problema si sposta per così dire nell’immaginario, nel dominio degli a priori interpretativi che permettono una determinata visione e visibilità del reale. Con ciò nessun’asserzione può più vantare una trasparenza maggiore, ma deve entrare in competizione nel campo delle virtù esplicative al fine di rivelarsi la tesi vincente, correndo così il rischio di venire delegittimata.

Sono esistiti tempi in cui alcune teorie del complotto formavano parte del patrimonio culturale e cognitivo della comunità. Può ben darsi che sarà il nostro caso.


Il filosofo Karl Popper in Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica afferma che l’origine del pensiero complottista si situa nella superficialità nell’uso dell’intelletto umano. Il complottismo nascerebbe, cioè, nel pensiero in atto nel senso comune (e non in quello scientifico, critico, accademico, erudito, o istruito in generale), che anziché essere eziologico e sforzarsi di comprendere profondamente la realtà per descriverla nei suoi complessi intrecci di cause ed effetti, predilige il paralogismo che meglio soddisfa l’esigenza psicologica di individuare un colpevole, un capro espiatorio, per giustificare l’esistenza di certi stati di cose.

Questa è l’origine filosofica del complottismo. Si possono però trovare altre origini della mentalità complottista. 

L’origine epistemologica del pensiero complottista

È rinvenibile, ad esempio, una origine epistemologica  della mentalità complottista che si inscrive nella stessa facoltà conoscitiva umana. Il complottismo nasce cioè dalla naturale capacità mentale umana di trovare – o costruire – risposte diverse, spesso tra loro opposte, per spiegare l’origine e la natura di un certo fenomeno biologico, fisico, psicologico, storico, sociologico, politico in quanto smania di trovare un senso (in questo caso non immediatamente evidente) alle cose che ci circondano, per classificarle e comprenderle in qualche modo. In questo senso il complottismo si radica nella capacità umana di semantizzazione della realtà e nel fatto che, per dirla con Ernst Cassirer,  l’uomo non è tanto animal rationale quanto animal symbolicum. L’uomo è l’essere vivente che dà significato alle cose – ponendosi le domande sull’Essere, direbbe Martin Heidegger -, perché scorge in ogni fenomeno un “di più”, un “resto” che ne è il significato simbolico, nel quale si situa un Altro da scoprire, da interpretare e da comprendere: qualcosa che sta fuori dal soggetto e dietro al fenomeno visibile, che lo determina per il fenomeno che si manifesta e al contempo ne spiega il senso all’interno della realtà. 

La radice epistemologica delle teorie complottiste si trova nella comprensione della natura stessa delle teorie scientifiche, politiche, sociologiche e cioè che esse non possiedono una certezza irrevocabile e irrefutabile, ma possono essere superate, modificate, attraverso la critica che conduce a teorie diverse e potenzialmente altrettanto solide e dimostrabili.

Mentre, dopo Darwin, la scienza biologica ha constatato che la natura non obbedisce a cause finali, ma si muove in modo casuale (senza scopo, ma non senza cause), il pensiero complottista applicato alla scienza vorrebbe retrocedere a una visione finalistica del mondo, attraverso argomentazioni addirittura più deboli di quelle delle leggi di natura di stampo tomista sposate dalla tradizione cattolica. Ciò che però manca alle teorie complottiste è una effettiva efficacia epistemica, in quanto vengono argomentate attraverso un metodo parascientifico, che ne fa delle moderne dottrine superstizioni empiricamente infondate e quindi costruite attraverso un movimento tautologico della riflessione, in cui la mente cerca di giustificare le teorie che essa stessa produce attraverso intuizioni sature di criticità interne, che non possono essere risolte attraverso una verifica scientifica, proprio perché si tratta di intuizioni volatili suffragate esclusivamente da un libero ragionamento svincolato dal metodo scientifico.

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È per questo che una teoria complottista non può che citare se stessa o servirsi di interpretazioni forzate di dati scientifici e statistici per legittimare la propria veridicità, non avendo fonti attendibili che forniscano dati almeno in qualche misura stabili su cui muovere riflessioni efficaci, prolifiche o banalmente utili, oltre all’intuizione. Stabilire la validità di queste teorie, e cioè ritenere che esse siano veritiere nel senso che abbiano la forza di rendere conto di come stanno le cose in realtà, se lo si può fare, di certo non si può pretendere di farlo in modo scientifico. Eppure il complottismo ha una pretesa di oggettività e di universalità delle sue teorie che non si fonda sull’appello a entità metafisiche superiori, e quindi non è superstizione in senso religioso. Tuttavia l’idea di imperscrutabili piani segreti di cospirazione assomigliano molto all’idea dell’imperscrutabile disegno divino del concetto di Provvidenza.

Pensiero complottista

Inoltre, il complottismo si presenta come un credo proprio nella sua pretesa di verità assoluta e incontrovertibile delle teorie che sostiene. In quanto credo fideistico, il complottismo comune si presenta nella forma associativa della setta pur senza l’organizzazione gerarchica interna, è sostenuto da un gruppo di persone che condividono spiegazioni alternative rispetto alle cause di certi fenomeni. L’assenza di una base solida in termini di dati comprovati e di un rigore logico stringente, assimila il complottismo al pensiero magico. L’assenza della logica non è certo di per sé indice di cattiva teoria, perché ci sono state scoperte scientifiche decisive senza l’uso della sequenza logica del ragionamento. Pertanto, chiamare le scienze della natura “scienze esatte” è fuorviante. Nelle parole di James Lovelock: «La scienza non è mai certa o esatta. Il meglio che siamo riusciti a fare è esprimere la nostra conoscenza in termini di probabilità».

Principalmente in quanto fornisce risposte alternative, il complottismo ha una forte presa popolare per la natura libertaria e liberatrice del suo metodo di riflessione, se così si può chiamare, e degli effetti delle teorie che sostiene. Il complottismo sarebbe, quindi, una risposta al principio antropico: il riferimento a sistemi umani di osservazione e comprensione dell’Universo su cui la scienza si basa e che intacca l’assoluta certezza della cogenza delle spiegazioni scientifiche della realtà, rivelandone il relativismo. In questo senso il complottismo aiuterebbe a sviluppare le capacità critiche, a ragionare con la propria testa, a fidarsi delle intuizioni senza dogmi e indottrinamenti, presentandosi come un moderno scetticismo. Ovviamente tutto ciò è assurdo, perché c’è una differenza tra i pensieri campati in aria e la teoria critica. Il complottismo è quindi un antidogmatismo parascientifico, uno scetticismo che è incapace di attuare una vera skepsis (ricerca). 

La radice logica e antropo-psicologica

In questo senso possiamo rinvenire la radice logica del pensiero complottista. L’asserzione “il vero sapere” e la parola “verità” per i complottisti hanno bisogno di essere svuotati dei loro contenuti presunti e di nuovo riempiti con contenuti più profondi ed efficaci, più “veri”. Questa operazione di svuotamento avviene attraverso il domandare dubitante-relativistico à la Cartesio. Che cos’è la verità? Perché il vero sapere è ritenuto tale? Queste domande apparentemente ingenue si fondano in realtà sulla latente smentita del metodo osservativo-sperimentale logico-scientifico. Verrebbero fatti gli esperimenti sbagliati, si osserverebbero le cose con un metodo sbagliato non provando nulla. 

Un’altra radice del pensiero complottista è di tipo antropo-psicologico. Tipico del complottismo è il sentimento claustrofobico e paranoico che nasce dall’idea dell’esistenza di un agente attivo che muove le fila della Storia, manipolando e distorcendo la verità per confezionarla al fine di esercitare il controllo sulle domande formulando risposte attraverso le quali controllare la realtà: per cui le spiegazioni consolidate e condivise sarebbero una menzogna che cela le vere ragioni, le vere origini e la vera natura di certi fenomeni reali.

Un altro sentimento tipico del complottismo è quello della rabbia, la frustrazione espressa attraverso un atteggiamento costantemente polemico. Essa scaturisce sia dal fatto che non vengono date vere informazioni, ma soprattutto dal fatto che la maggioranza crede vere le informazioni che gli vengono propinate come tali in forza della scienza, la mancanza di una profonda trasparenza circa dati che dovrebbero essere, in quanto empirici, pubblicamente accessibili e verificabili, non fa che accrescere l’esigenza di trovare spiegazioni alternative. Per non parlare delle questioni politiche, di per sé, avvolte nel mistero della cupezza degli uffici burocratici.

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Questo aspetto solleva la questione del rapporto tra realtà e finzione, messa in rilievo in termini politici già da Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo. Si presenta questa correlazione speculare: ciò che i complottisti ritengono vero è giudicato da molti finzione e false teorie; ciò che è ritenuto scientificamente provato da molti, per i complottisti è una finzione sapientemente organizzata e frutto della manipolazione dell’informazione e della distorsione della verità. Il problema qui è l’accettazione passiva di teorie scientifiche da parte del senso comune, il quale le accetta non perché scopre che sono vere, ma perché sa per sentito dire che sono la conoscenza vera della realtà. In questo modo non è la scientificità riscoperta dal senso comune, ma il senso comune che informa se stesso.

Secondo alcuni articoli che ricostruiscono le origini psicologiche del pensiero complottista, esso deriverebbe dall’ansia e dall’incertezza. Chi scrive sostiene che, senza averne coscienza, il pensiero complottista fa riferimento a teorizzazioni sociologiche e psicologiche più precise nelle quali esso stesso si inserisce. Per fare due esempi: il concetto di “violenza simbolica” e la “fabbricazione di categorie mentali” teorizzate dal sociologo Pierre Bourdieu, il quale mette anche in luce l’esistenza di un sistema di significati che costituisce il potere repressivo dell’ordine simbolico vigente al quale tutti sono costretti a conformarsi per fare corpo sociale. In questa ottica il complottismo opererebbe una decostruzione di questo ordine simbolico oppressivo, senza però sfuggire alla logica dell’ordine simbolico come tale (perché ne crea un altro). L’altro esempio è la concezione di panoptico elaborata da Michel Foucault secondo cui l’uomo moderno, consapevole di essere totalmente osservato, interiorizza questa consapevolezza e si uniforma al pensiero comune e mainstream, autolimitando le sue libertà a tutti i livelli di vita.

Per i complottisti viviamo in un ambiente culturale costruito su finzioni e manipolazioni, per i sostenitori del senso comune sono i complottisti a introdurre la finzione nella società e nella cultura attraverso vaneggiamenti e cattive teorie, che devono essere denunciate come tali al fine di evitare l’ingenerarsi di confusioni teoriche sui fenomeni essenziali della vita biologica, politica, culturale e per garantire il procedere veramente critico al progresso del sapere in generale. 


Articolo a cura di Mattia Brambilla (prima parte) e Lorenzo Pampanini (seconda parte)


Letture consigliate:
– A. Bartlett, H. Collins e L. Reyes-Galindo, The Ecology of Fringe Science and its Bearing on Policy (2016)
– Umberto Eco, Costruire il nemico (2011)
– Rob Brotherton, Menti sospettose: perché siamo tutti complottisti (2017)
– Karl Popper, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica (1976)

 


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