Ieri, 25 novembre 2020, ci ha lasciato Diego Armando Maradona, el pibe de oro. Ma perché in un anno così costellato da tragici eventi lo piangiamo? Perché il Governo argentino, dopo aver decretato il lutto nazionale e assegnato – prima volta nella storia – il palazzo presidenziale Casa Rosada come camera ardente, ha deciso di sospendere il lockdown nazionale per permettere a tutti e tutte di prendere parte alla commemorazione? Perché la dipartita di un ex calciatore si è presa le prime pagine di tutti i quotidiani del globo? Già, perché?
Semplicemente perché Maradona era un dio, umano. Un umano con caratteristiche divine, quasi aliene. Tanto che alcuni suoi sostenitori sono arrivati a fondare nel 1998 a Rosario in Argentina la Iglesia Maradoniana, la Chiesa di Maradona, un credo religioso sul dio del calcio, e che a Napoli in via san Biagio dei Librai si può trovare un altarino a lui dedicato, con tanto di capello in una teca, e a cui chiedere la grazia.
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Personaggio controverso, contraddittorio, scomodo, mai scontato, sregolato, comunista (o quantomeno guevarista e castrista, pro Maduro e pro Chavez) e tossico redento. Ma anche poeta e poesia contemporaneamente, profeta, leggenda, mano di Dio, genio, metro di paragone per i campioni e nume tutelare degli scugnizzi, musa ispiratrice di cantanti e registi, numero Dieci e Diego per antonomasia. Ha dato senso alla vita di molti. Ha ri-dimostrato la democraticità dello sport. Ha lottato e vinto per il Sud del mondo e per il Sud Italia, per le periferie sociali e geografiche, per chi lo amava e per chi non poteva sopportarlo. Ha saputo ammettere i propri errori, arrivando addirittura a definirsi così: «Io sono le mie colpe».
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Eccessivo nel bene e nel male, è stato emblema di un calcio che non esiste più. Ora rimane nella memoria di chi ha avuto la fortuna di vederlo giocare e anche di chi delle sue gesta ha goduto solo per i racconti e per gli sparuti video.
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Maradona è stato colui che calcisticamente ha trascinato il Boca Juniors, il Barcellona, il Napoli e la nazionale Argentina, che ha vinto in ogni Paese in cui ha giocato, che ha ubriacato i migliori difensori, che da solo ha conquistato un Mondiale. È stato colui che ha segnato la rete più bella della storia del calcio, el gol del siglo, grazie a una corrida tanto memorable da far gridare e far piangere in diretta l’incredulo suo connazionale e telecronista Victor Hugo Morales durante i quarti di finale del Mondiale ’86 contro l’Inglaterra: in dieci secondi e quarantacinque centesimi percorse palla al piede sessanta metri di campo e dribblò mezza squadra avversaria. «¿De que planeta viniste para dejar en el camino a tanto ingles?», dopo soli tre minuti dall’altro leggendario gol segnato con la mano de Dios. Per rifarvi gli occhi:
Morto nello stesso giorno del suo amico Fidel Castro e di un altro mostro sacro del pallone come George Best, Maradona è colui che, per sempre, si contenderà lo scettro di migliore calciatore con un altro Dieci, un certo Edson Arantes do Nascimento, Pelé.
Perché dunque piangiamo Maradona? Perché sì, perché era è e sarà l’unico Maradona. Perché, come cantano ancora i napoletani, «oh mamma mamma mamma, oh mamma mamma mamma, sai perché mi batte il corazon? Ho visto Maradona, ho visto Maradona e, mammà, innamorato sto!».
¡Hasta siempre Diego!
Tommaso Davide Fasola
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