Nella prima cantica della Commedia dantesca il Dante agens trova sulla sua strada numerosi personaggi, che per un motivo o per un altro si trovano a soggiornare nell’Inferno per l’eternità. Molti di questi, oltremodo noti, sono personaggi tratti dall’autore dalla cultura classica, altri invece facevano parte della sua contemporaneità, e per qualche aspetto avevano avuto un’influenza su Dante. In questo articolo ci si prefigge lo scopo di esaminare qualcuno di questi personaggi minori dell’Inferno, usando un criterio d’indagine di tipo storico, andando dunque a rintracciarne le informazioni e notizie nell’epoca di Dante.
Ciacco, canto VI
Nel Canto VI, Dante e Virgilio si trovano nel terzo cerchio dell’Inferno, dove è punito il peccato di gola, il secondo nella scala dei peccati di incontinenza; la pena a cui i dannati sono sottoposti è subire, stesi nel fango, una pioggia di putridume.
Noi passavam su per l’ombre che adorna
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.Elle giacean per terra tutte quante,
Canto VI, vv. 34 – 39
fuor d’una ch’a seder si levò, ratto
ch’ella ci vide passarsi davante.
Fra loro, si leverà un certo Ciacco, intenzionato a parlare con Dante. Il dialogo fra i due ha come oggetto il tema politico della Firenze di quegli anni, «una città partita» (divisa) in particolare dalle due fazioni dei Guelfi Bianchi e Neri. Dante darà a Ciacco il ruolo di esprimere la prima profezia, ossia che i Bianchi verranno cacciati dai Neri, cosa che avverrà dai primi mesi del 1302 – la profezia è immaginata essere fatta durante l’inizio del viaggio dantesco, più o meno nella primavera del 1300.
Dalle informazioni dateci dall’autore, possiamo intravvedere nella figura di Ciacco le sembianze di un comune cittadino, insignito, letterariamente, a testimoniare la decadenza e l’instabilità politica della città di Firenze negli anni di Dante, lasciando all’opera il suo ruolo storico, politico e testimoniale.
D’altro canto, però, è interessante ragionare su chi fosse effettivamente questo comune cittadino di Firenze. Ora, non ci sono giunte notizie certe come documenti notarili o comunali, abbiamo quasi ed esclusivamente le testimonianze lasciateci sia da Dante che da Boccaccio.
Partendo dalla Commedia, alla domanda di Dante sul motivo della permanenza nel terzo cerchio il dannato risponde:
Voi cittadini mi chiamaste Ciacco
vv. 52 – 54
per la dannosa colpa de la gola
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco.
Per alcuni commentatori, il nome Ciacco poteva essere un soprannome dispregiativo, poiché infatti anticamente poteva essere usato col significato di «porco», ma sembra difficile che qui Dante volesse dargli quella sfumatura dispregiativa, considerando il tono affettuoso che pare mostrare verso il personaggio nella prosecuzione del dialogo. Inoltre, Ciacco era un nome che derivava dal francese Jacques o dal toscano Jacopo, e che non veniva usato solo come nomignolo canzonatorio.
Possiamo intendere che visse nell’epoca di Dante, poiché in un paio di versi precedenti, cercando di farsi riconoscere dal poeta, dice:
mi disse, «riconoscimi, se sai:
vv. 41 – 42
tu fosti, prima che io disfatto, fatto»
Ciacco, dunque, ci dice qui che Dante nacque («fosti fatto») prima che egli morisse («disfatto»), perciò l’autore conobbe Ciacco in vita. Secondo le notizie forniteci dal manoscritto Marciano IX 179, studiato da Avalle, nel commento si afferma che «Questi conobbe Dante, però che, nanzi che egli morisse, aveva Dante quattordici anni». In questo senso, è possibile che Dante avesse conosciuto Ciacco durante la sua adolescenza.
Anche Boccaccio cita Ciacco nelle Esposizioni sopra la Divina Commedia, che è un’opera tarda dove questi riflette sull’opera dantesca, dicendo:
Fu costui uomo non del tutto di corte; ma, per ciò che poco avea da spendere ed erasi, come egli stesso dice, dato del tutto al vizio della gola, era morditore e le sue usanze erano sempre co’ gentili uomini e ricchi, e massimamente con quelli che splendidamente e dilicatamente mangiavano e beveano, da’ quali se chiamato era a mangiare, v’andava, e similmente, se invitato non era, esso medesimo s’invitava, ed era per questo vizio notissimo uomo a tutti i Fiorentini. Senza che, fuor di questo, egli era costumato uomo, secondo la sua condizione, ed eloquente e affabile e di buon sentimento; per le quali cose era assai volentieri da qualunque uomo ricevuto.
Esposizioni, VI litt. 25
Oltre che in questo punto, Boccaccio impiega il personaggio Ciaccio anche nell’ottava novella della nona giornata del Decameron, dove questi viene nuovamente descritto come goloso.
E per ciò dico che essendo in Firenze uno da tutti chiamato Ciacco, uomo ghiottissimo quanto alcuno altro forse giammai, e non potendo la sua possibilità sostener le spese che la sua ghiottornia richiedea, essendo per altro assai costumato e tutto pieno di belli e di piacevoli motti, si diede a essere non del tutto uom di corte ma morditore e a usare con coloro che ricchi erano e di mangiar delle buone cose si dilettavano; e con questi a desinare e a cena, ancor che chiamato non fosse ogni volta, andava assai sovente.
Decameron, novella 8, giornata nona
Insomma, Boccaccio ci rappresenta questo personaggio un po’ come uno degli invitati alle cene di Trimalcione in Petronio: un uomo di buona capacità affabulatoria che si faceva invitare alle cene dei nobili di Firenze per poter mangiare gratuitamente.
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Probabilmente Ciacco era uno di quei personaggi che tutti ricordavano o conoscevano a Firenze proprio per quell’aspetto comportamentale. infatti, non a caso, sia Boccaccio che Dante ne fanno menzione, quasi a identificarlo nella loro epoca coeva al goloso per antonomasia. Per tale ragione, per via del carattere memoriale più popolare e privo di valenza storico-giuridica, l’identità completa di questo Ciacco rimarrà confinata alla sua epoca e al ricordo di chi ormai non è più presente per spiegarcelo. Ma d’altronde è degna di essere evidenziata la potentissima scelta dantesca di porre in questo ruolo di testimone storico-politico un uomo lungamente canzonato e schernito, tanto da divenire modello ricorrente del concetto della canzonatura. In fondo, Ciacco è simbolo dell’uomo piccolo e debole che giudica i grandi della storia e la loro corruzione.
Filippo Argenti, Canto VIII
Il settimo Canto dell’Inferno ha come argomento centrale l’attraversamento della palude Stigia e l’arrivo poi alla città di Dite; immersi nella palude troviamo gli iracondi. Tra questi vi è Filippo Argenti, con il quale Dante avrà il primo e vero scontro diretto. Difatti, questi cercherà di carpirlo:
E io a lui: “con piangere e con lutto,
spirito maladetto, ti rimani;
ch’io ti conosco, ancor sie lordo tutto”.Allor distese al legno ambo le mani;
Canto VIII, vv. 37 – 42
per che ‘l maestro accorto lo sospinse,
dicendo: “via costà con li altri cani!
Questo iracondo, o per meglio dire «quei fu al mondo persona orgogliosa», è Filippo Argenti. Lo capiamo qualche verso dopo, quando altri dannati gridano il suo nome, poiché questi incomincia a mordere se stesso coi denti. Dante non ci riferisce molto dell’Argenti, infatti dopo solo una trentina di versi, con un verso che denota un fastidio frettoloso, quasi il personaggio, così poco degno di essere menzionato, fuorché per l’episodio spiacevole, debba essere rispedito nell’oblio della sua profonda dannazione e dimenticato, anche dal lettore.
Le notizie che ci giungono dagli antichi rispetto a Filippo Cavicciuoli, detto Argenti sono quelle di un cavaliere fiorentino della famiglia degli Adimari, definito da tutti un prepotente. Boccaccio ci racconta che questi veniva chiamato Argenti poiché usava ferrare d’argento il suo cavallo, motivo estetico di vanagloria. Inoltre, non si sa bene cosa successe tra il cavaliere e Dante, ma alcuni commentatori sembrano suggerirci che tra i due ci fosse inimicizia. Infatti, Filippo doveva essere il vicino di casa di Dante, e a lui particolarmente inviso. Si narra di un episodio dove l’Argenti chiese un aiuto all’Alighieri per certi problemi giudiziari, e quest’ultimo non soltanto non lo aiutò, ma lo denunciò per sfruttamento abusivo di suolo pubblico, aumentandone ancor di più l’ammenda. Inoltre, si dice avesse preso a schiaffi Dante e godette dei beni confiscati al poeta dopo il suo esilio e la sua condanna; questi, infatti, faceva parte della fazione opposta a Dante. Sembrava inoltre essere un personaggio rinomato a Firenze per la sua condotta impropria. Infatti, si dice che girasse col cavallo a gambe divaricate colpendo tutti i passanti: questo fu motivo di denuncia di tutta la cittadinanza, che chiedeva che questi girasse a cavallo senza importunare gli altri.
Anche Boccaccio ne fece utilizzo nelle sue opere, in particolare nel Decameron, nella stessa novella di cui si faceva menzione poco sopra (IX, 8). Qui Ciacco, per rispondere allo scherzo di Biondello, un altro goloso di Firenze, manda un barattiere dall’Argenti a chiedere, per conto di Biondello, del vino per divertirsi poi con gli amici. L’Argenti si infuria e quando incrocia Biondello lo picchia con molta forza.
Vanni Fucci, canto XXIV e XXV
Vita bestial mi piacque e non umana
Canto XXIV, vv. 124 -126
sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana
Vanni Fucci, detto Bestia, fu figlio illegittimo di un nobiluomo pistoiese, Fuccio dei Lazzari. Fu un Guelfo Nero, ricordato dalle fonti antiche per essere stato un saccheggiatore, un uomo violento e sempre pronto alla rissa e all’omicidio; lo troviamo nelle carte pistoiesi condannato in contumacia nel 1295 per brigantaggio e pluriomicidi. Dante però, lo pone tra i ladri e non tra i violenti, poiché il reato più grave perpetrato da questi sembra essere stato il saccheggio del tesoro della cappella di S. Iacopo in Pistoia, avvenuto nel 1293. Fu inizialmente condannato un tale Rampino Foresi, che fu però poi scagionato nel momento in cui vennero scoperti i veri colpevoli. In particolare fu arrestato il notaio Vanni Della Monna, che rivelò i nomi dei due complici: Vanni Mirone e Vanni Fucci. Della Monna fu impiccato subito mentre Fucci probabilmente non fu preso, ma solo condannato in contumacia; infatti, si trovava lontano da Pistoia. Da qui in poi non si sa più nulla di questo terribile personaggio, se non che, visto che Dante lo pone all’Inferno nel 1300, allora questi probabilmente era morto.
Bibliografia
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Ciacco, Enciclopedia dantesca, Treccani
Dante, Divina Commedia, Inferno, commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1991
Giovanni Boccaccio, Decameron, commento di Vittore Branca, Torino, Einaudi, 1980