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Gli usurai nel basso medioevo: Inferno, canto XVII

L'usura nel Duecento e in tutto il basso medioevo, come Dante ci ha illustrato, esisteva ed era un'attività non soltanto particolarmente florida ma anche legittima socialmente. Ma sul piano teorico, e dottrinale-religioso, non si può dire altrettanto.

16 minuti di lettura

In questo breve articolo ci si propone di analizzare la figura degli usurai nel basso Medioevo attraverso un caso di studio letterario che più di altri ci propone una visione esemplare ed esemplificativa, particolarmente efficace per spiegarne i tratti peculiari, dell’Inferno di Dante Alighieri.

Ouverture letteraria

Ci troviamo nel canto XVII dell’Inferno, e più precisamente nel terzo girone del settimo cerchio. Il canto non è incentrato sugli usurai, poiché l’avvenimento principale della narrazione è la discesa di Dante e Virgilio nell’ottavo cerchio dell’Inferno, altrimenti detto Malebolge, sulla groppa del drago multiforme Gerione.

Ecco la fiera con la coda aguzza,
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
Ecco colei che tutto ‘l mondo appuzza!

vv. 1-3 canto XVII Inferno

I primi 27 versi sono dedicati alla descrizione di Gerione, la quale viene poi interrotta da un discorso diretto di Virgilio rivolto a Dante, con la spiegazione del prosieguo successivo del viaggio oltremondano e con la richiesta di interloquire con “ragionamenti corti” coi dannati del girone; onde concedergli del tempo nelle trattative col mostro. Così, mentre Dante può apprendere la condizione infernale riservata agli usurai, Virgilio si prodiga nell’ottenimento del favore del mostro di essere traslato in groppa in volo in un locus ancora più abissale e tormentoso nella costruzione infernale dell’Alighieri.

Dante si appropinqua verso il margine estremo del cerchio, dove in lontananza gli si palesa della “gente mesta” che:

per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:

vv. 46-48

Parafrasando: “Il loro dolore prorompeva in lacrime fuori dagli occhi / correvano di qua e di là difendendosi con le mani / opponendole ora alle fiamme cadenti ora alla rena ardente del suolo (Leonardi)”. Nella terzina successiva ci viene mostrato in modo ancora più intensivo il senso di fastidio e dolore dei dannati col paragone del cane attaccato da pulci, mosche o tafani, che risponde con gesti di difesa inutili quanto inefficaci, che nella loro impotenza e pateticità ne acutizzano la pena. Tuttavia, il paragone rimarrebbe inespresso se non se ne comprendesse la sua duplicità espressiva: vi è sotteso infatti un giudizio morale. Senza ancora sapere la colpa della dannazione, il lettore dunque è già portato a intendere una considerazione miserrima del dannato, la cui vana arma di difesa assume tratti spregiativi che ne precludono a priori una qualsiasi forma di pietas, talora presente in altri punti per gestualità similari (vedi bestemmiatori e sodomiti).

Piano piano la terribile schiera dei malnati assume sembiante più nitido, ma la progressione descrittiva, che segue l’incedere del movimento del capo del Dante agens, ci svela, uno alla volta, piccoli dettagli. Questi ci aprono a colpi di sineddoche stralci prospettici molto ampi della storia contemporanea al Dante auctor, e rivelano ai lettori moderni, grazie ai commenti, e con subitaneo étonnement ai lettori trecenteschi, l’identità storica dei protagonisti. Ebbene sì, caro lettore, quei dannati dai comportamenti canini sono proprio degli usurai.

Poi che nel viso a certi li occhi porsi,

ne’ quali ‘l doloroso foco casca

non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi

che dal collo a ciascun pendea una tasca

ch’avea certo colore e certo segno,

e quindi par che ‘l loro occhio si pasca.

E com’io riguardando tra lor vegno,

in una borsa gialla vidi azzurro

che d’un leone avea faccia e contegno.

Poi, procedendo il mio sguardo il curro,

vidine un’altra come sangue rossa,

mostrando un’oca bianca più che burro.

E un che d’una scrofa azzurra e grossa

segnato avea lo suo sacchetto bianco,

mi disse…

vv. 54 – 66

I Gianfigliazzi

Nei versi citati poc’anzi, Dante individua i dannati e comincia a scrutargli; ciò che nota sono le insegne nobiliari dotate di dettagli denotativi eloquenti, perciò prestamente svelati. La prima di queste che ci viene presentata è quella della famiglia dei Gianfigliazzi, famiglia fiorentina guelfa nera che già dal Lana veniva definita come “grande famiglia di usurai”.

Il leone azzurro in campo giallo è l’unico dettaglio che ci viene dato, infatti non sembra che Dante volesse indicare un membro in particolare della famiglia, benché taluni commentatori antichi vi volevano vedere l’identità di messer Catello di Rosso, che esercitò usura in Francia e morì nel 1283.

Stemma dei Gianfigliazzi, fonte Wikipedia.

Il cognome dei Gianfigliazzi deriva da una storpiatura del nome del patriarca della famiglia, Giovanni figlio di Galeazzo. Si tratta di una famiglia, che come tante altre nel ‘200, riuscì repentinamente in un tempo molto breve a fare fortuna attraverso prima l’attività commerciale, poi attraverso quella banchiera. Sia noto al lettore che l’attività di credito, tutt’ora in funzione, ha un legame storico profondissimo con l’usura; difatti in origine non vi era una differenziazione tra le due che sarebbe poi stata posta dalla legislazione moderna. Firenze, nell’epoca di Dante, era una città che si era specializzata nel settore finanziario internazionale e vi aveva trovato la propria fortuna, tanto che svolgeva quel ruolo internazionale che oggi attribuiremmo a New York, Londra o Milano. Inoltre, è bene ricordare che la fragilità politica del potere reale, imperiale e di quello papale, reduce dalla conclusione fallimentare delle crociate, dava spazio a nuovi equilibri socio-politici che vedevano la rapida ascesa e nobilitazione di famiglie arricchitesi repentinamente, prima facenti parte talora di ceti popolari. I Gianfigliazzi si stagliano proprio in questo quadro storico sociale.

Il 1215 è l’anno della loro fortuna. Riescono a ottenere grandi somme per un credito concesso al vescovo di Fiesole, il quale non riuscendo a ripagare rapidamente il suo debito, lasciò lievitare la percentuale di interesse. Flussi monetari che vennero intelligentemente reinvestiti in prestiti nel sud della Francia, dove il tasso di interesse poteva raggiungere il 266 %. Nel giro di pochi anni divennero ricchissimi tanto da poter attivare un processo di nobilitazione, comprandosi un’intero palazzo in via Tornabuoni, sul lungarno, e ottenendo una serie di incarichi pubblici nell’amministrazione della città.

Palazzo dei Gianfigliazzi in via Tornabuoni a Firenze. Fonte Wikipedia.

Entrando poi nella consorteria dei Donati (i nemici di Dante, per intendersi), divennero una famiglia di Guelfi neri.

Oltre ad essere citati da Dante nel canto diciassettesimo dell’Inferno, anche Giovanni Boccaccio nel Decameron ne fa menzione. Infatti Chichibio, il cuoco che si fa beffe del proprio signore, è proprio il cuoco dei Gianfigliazzi (sesta giornata, novella IV).

Obriachi

L’oca bianca in campo rosso era lo stemma degli Obriachi: famiglia fiorentina ghibellina di usurai, cacciata dalla città nel 1258, proprio a seguito della cacciata dei ghibellini dopo la battaglia di Benevento.

Anche in questo caso non abbiamo più dettagli dello stemma, benché dai commentatori antichi il dannato era stato identificato nella figura di Ciapo, che sappiamo prestava denaro in Sicilia nel 1298.

Stemma degli Obriachi. Fonte Wikipedia.

Come i Gianfigliazzi, anch’essi ottennero rapida fortuna nel Duecento attraverso l’attività di credito, in particolare poi in Sicilia. In questo caso però non stiamo parlando di una feroce famiglia di usurai come i Gianfigliazzi, la scelta di Dante fu dettata solo dalla necessità di trovare una famiglia usuraia nel campo dei Ghibellini. Ma d’altra parte, nella visione cristiana di Dante, qualsiasi attività bancaria di prestito di danaro era considerata vizio capitale, passibile di pena infernale.

Dopo la cacciata da Firenze la famiglia si disperderà in giro per l’Italia e la parte veneziana della famiglia, nel XIV secolo, cambierà mestiere ed entrerà nella lavorazione artigianale dell’avorio. La bottega sarà rinomata in tutta Europa e alcuni loro manufatti artigianali, commissionati da grandi famiglie nobiliari, sono oggi esposti in grandi musei, come la grande pala d’altare dell’abbazia di Poissy, commissionata dal duca di Berry, oggi esposta al Louvre.

Scrovegni

La scrofa azzurra in campo bianco è lo stemma della famiglia padovana degli Scrovegni. Questa volta, oltre allo stemma, abbiamo anche la voce del dannato, visto che interloquirà con Dante, e i più vi riconoscono la figura di Reginaldo degli Scrovegni.

Si tratta di un personaggio che già i commentatori antichi additavano come figura dell’usuraio per antonomasia. Si dice in origine fosse un musicante, poi col tempo si fosse messo negli affari creditizi facendo una fortuna smisurata. Il tono che gli viene dato nella commedia ne sottolinea la cattiveria, infatti non parlerà di se stesso, ma accuserà due usurai rivali padovani, Vitaliano del Dente e Giovanni Buiamonti.

Si dice che questi morendo gridò le seguenti parole: «datemi la chiave del mio scrigno, perché nessuno trovi il mio denaro». Un personaggio insomma degno della sua collocazione, tanto che il figlio Arrigo, in espiazione delle colpe del padre, deciderà di commissionare a Giotto gli affreschi della famosa cappella degli Scrovegni a Padova.

La cappella degli Scrovegni. Fonte Wikipedia.

Usura nel ‘200, per una conclusione.

L’usura nel Duecento e in tutto il Basso Medioevo, come Dante poc’anzi ci ha illustrato, esisteva ed era un’attività non soltanto particolarmente florida ma anche, almeno a livello fattuale, legittima socialmente. Sul piano teorico, e più specificamente dottrinale-religioso, non si può dire altrettanto, ne è dimostrazione la concezione dantesca e tutta la filosofia medievale fino alla scolastica, che struttura peraltro lo stesso discorso dantesco. Gli storici hanno più volte dimostrato il collegamento tra l’attività dell’usura e i prodromi della moderna attività bancaria, che ne è di fatto la continuazione.

L’usura d’altra parte contravviene al macro vizio capitale dell’avarizia, che contiene in sé anche quello della cupidigia, come opposizione a una virtù teologale come la carità; così viene già definita sia da Cassiano che da Gregorio Magno.

Alcuni storici per anni hanno ricercato una legittimazione dell’usura, sia a livello morale-teologico che più propriamente giuridico nel diritto canonico, senza però arrivare a soddisfacenti conclusioni. Pertanto il giudizio morale, ma anche giuridico, rimane legato comunque alla concezione contrastiva e di condanna che troviamo nell’opera dantesca.

Tali riflessioni e ricerche storiche inevitabilmente scaturiscono anche dalla spinta di riflessioni di natura socio-politica e filosofica di filosofi come Max Weber che trovano le origini del capitalismo liberista ottocentesco e potremmo dire, lo si conceda, contemporaneo, paradossalmente nella religione cristiana “protestante”, e in particolare nel calvinismo. Il quale però, alla luce della dottrina millenaria e più pura del cristianesimo, appare una stortura contraddittoria e assolutamente illegittima.

Jacques Le Goff afferma, a discapito di certe concezioni marxiste, che il capitalismo non nasce nel Tredicesimo secolo, visto il legame profondo tra società e ideologia cristiana. E’ nell’epoca moderna, nella fattispecie nel Quattordicesimo secolo, che l’attività bancaria, per via di rivolgimenti di pensiero, si consolida come legittima; in particolare conseguentemente alla forte distinzione e contrapposizione con l’usura. Contrariamente a ciò, nell’epoca di Dante questa distinzione non è presente, e l’attività di credito è di per sé condannata.

Dunque, in conclusione, se si vuole fare un uso della storia e della riflessione occidentale sulle strutture socio-economiche del mondo contemporaneo, forse la questione andrebbe vagliata con un occhio capace di criticare in nuce la contraddittorietà dei nostri giorni, ma capace anche di ben contestualizzare i fatti storici senza pertanto arrivare a sovra-interpretazioni.

PS: spero si capisca che Dante non è alla base di alcuna struttura di pensiero di “destra”, come qualche malinformato ministro ha osato affermare.

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Bibliografia

Dante, Inferno, commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, 1991, Milano

Casagrande, Vecchio, I sette vizi capitali, storia dei peccati nel Medioevo, Einaudi, 2000, Torino

Jacques Le Goff, La borsa e la vita: dall’usuraio al banchiere, Laterza, 1987, Bari

Vladislav Karaneuski

Classe 1999. Studente di Lettere all'Università degli studi di Milano. Amo la letteratura, il cinema e la scrittura, che mi dà la possibilità di esprimere i silenzi, i sentimenti. Insomma, quel profondo a cui la parola orale non può arrivare.

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