Di violenza negli stadi si torna a discutere con cadenza regolare poi però, con altrettanta puntualità, il tema svanisce, come la scia di un fumogeno che a poco a poco si dissolve nell’aria. Ormai le notizie non sorprendono più. Sollevano qualche voce, ma passeggera, di circostanza. Indignano, ma solo fino ad un certo punto. Che l’Italia si stia abituando, a tutta questa violenza?
La questione del tifo violento accompagna da tempo la storia del Paese, sin dai disordini di inizio Novecento e da quella prima vittima a Viareggio nel 1920, dimostrando una basilare verità: chi condanna il presente cade in errore; chi rimpiange il passato “perché queste cose non accadevano”, vive in una grande illusione. Poi, certo, sono arrivati gli anni ’60 e con essi i primi ribelli, le prime espressioni di un nuovo fenomeno tutto sommato gestibile, almeno fino alla fatidica soglia di quegli anni ’80 di sangue. Prima compaiono semplici gruppi di giovani che iniziano a seguire la propria squadra in trasferta, preparando slogan e striscioni, poi inizia a delinearsi una strutturazione sempre più fine che non tarda a contaminarsi con ambienti malavitosi ed idee politiche estremiste. Allora non stupisce scoprire come Daniele Belardinelli, l’uomo investito a Milano prima della partita tra l’Inter e il Napoli il giorno dopo Natale, fosse tra i capi dei “Blood & Honour”, la frangia più accesa del tifo varesino, storicamente gemellata con i nerazzurri nonché affiliata alla rete italiana dell’omonima organizzazione di matrice nazista. A dimostrazione della solida connessione tra lo sport e la politicizzazione delle curve. Il sociologo Michel Caillat ha più volte analizzato il peso dell’ideologia nel mondo del pallone, sottolineando come «lo sport sia un fenomeno impregnato di fascismo». Un esempio tra tutte è rappresentato dalla tifoseria della Lazio, macchiatasi di nero per episodi come gli insulti razzisti contro il Tottenham, il caso degli adesivi antisemiti con la foto di Anna Frank e, più recentemente, per la circolazione di volantini contro la presenza delle donne in certe file della Curva Nord.
Come ha dichiarato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel commentare i fatti del 26 dicembre, gli ultras sono solo degli «estremisti travestiti da tifosi. Fenomeni che i pubblici poteri e le società di calcio hanno il dovere di contrastare e debellare». Eppure qualcuno – i club, la politica – in qualche modo li protegge sempre. Poi finisce in tragedia e c’è sempre qualcuno – i club, la politica – in prima linea a condannare. È, ad esempio, l’atteggiamento schizofrenico di Matteo Salvini che prima si fa fotografare con il capo ultrà del Milan, colpevole di spaccio e di aver fatto perdere un occhio ad un sostenitore dell’Inter durante una rissa, e dopo si erge a paladino del tifo sano e colorato. Ecco allora un altro punto, proprio il colore. Dovrebbe contare solo quello delle maglie, allo stadio, invece il concetto si allarga, intessendosi inevitabilmente a quelle idee politiche estremiste di cui sopra. Finché gli stessi rappresentanti delle istituzioni continueranno a fare dell’insulto al “diverso” il proprio verbo quotidiano, chiunque si sentirà legittimato ad usare i medesimi mezzi. D’altronde, i cori razzisti contro il calciatore del Napoli Kalidou Koulibaly, durante l’incriminata partita del 26 dicembre, non fanno che riflettere una precisa linea politica, fondata sull’odio e sulla discriminazione e portata avanti fino ai banchi di Montecitorio. Se certi tweet di certi politici venissero cantati nelle curve, l’effetto sarebbe a dir poco lo stesso.
In tutto il parlare che puntualmente circonda simili episodi, con le consuete minacce di fermare il campionato, una reale soluzione al problema pare però lontana. Sottoporre i soggetti pericolosi a Daspo, ossia al divieto di accedere alle manifestazioni sportive, è una misura insufficiente e sorvola un altro pressante problema, quello delle infiltrazioni della criminalità che spesso gestisce la vendita dei biglietti e le scommesse. Ma al di là di tutto, c’è chi suggerisce, per tentare di risolvere un problema all’apparenza solo italiano, di seguire il modello di altri Paesi europei. L’Inghilterra, nello specifico, in parte ci è riuscita, a sconfiggere gli hooligans. Con una buona dose di civiltà e di senso civico, certo, a cui si è aggiunta una serie di provvedimenti legislativi. Innanzitutto un basico sistema “Crimestoppers” mediante l’attivazione di un numero verde per segnalare episodi di violenza, lo Sporting Event Act (1985) vietante l’introduzione di alcolici negli stadi e il Football Offences Act (1991) che permette alla polizia di arrestare e processare per direttissima i tifosi anche solo per violenza verbale. Perché chi fomenta un tifo violento rappresenta una minoranza, è vero, ma possibile grazie alla complicità di una maggioranza omertosa.
Negli stadi, però, non è sempre onorifico neppure ciò che accade stavolta non sugli spalti ma sull’erba. O meglio, nell’ufficialità degli ambienti della FIGC. Consideriamo, ad esempio, la Supercoppa italiana, che dal 1993 si è in diverse occasioni giocata all’estero, accompagnandosi puntualmente da un mare di polemiche. Non è (solo) una questione di soldi, assicurano i vertici di Lega di Serie A e squadre, che però gli introiti non li disdegnano affatto, richiamando alla memoria quella finale del 2002 giocata a Tripoli, per la gioia del promotore, ossia il figlio del colonnello Gheddafi, e del portafoglio rimpinzato delle società calcistiche. Allora si insegue la scia dei 22,5 milioni di euro pattuiti per tre edizioni, sino a giocare la Supercoppa in uno stadio saudita in cui le donne possono accedere solo ai settori per famiglie, appena il 15% della capienza dello stadio, mentre la rimanente parte è riservata ai soli uomini. «Nessuno sconto a uno dei Paesi che si distingue per le violazioni dei diritti (quelli delle donne in particolare), per la pena di morte contro gli oppositori, responsabile dell’omicidio del giornalista Khashoggi. Anche lo sport deve essere veicolo di diritti» denuncia la lista PiùEuropa. Ma nulla, a quanto pare, in Italia è più sacro ed inviolabile del calcio; neppure i diritti umani.