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Il Sudan è ancora in guerra, la sete di potere non si placa

Dopo nove mesi di conflitto nel Sudan tra l'esercito regolare e le Rapid Support Forces (RSF), l'impasse diplomatica persiste. La situazione rimane avvolta nell'incertezza, aggravando l'emergenza umanitaria

12 minuti di lettura

A quasi nove mesi dallo scoppio di una sanguinosa guerra in Sudan tra l’esercito e il gruppo paramilitare Rapid Support Forces il 15 aprile 2023, mentre la popolazione civile vive una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, la mediazione diplomatica appare in stallo. In un video rilasciato venerdì 5 gennaio, il capo di Stato sudanese, il generale Abdel Fattah al-Burhan, in un discorso alle sue truppe radunate a Port Sudan esclude la possibilità di “riconciliazione” con le truppe del generale rivale Mohamed Hamdan Dagalo.

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Guerra in Sudan e pulizia etnica nel West Darfur

Le motivazioni addotte da al-Burhan fanno riferimento alle atrocità commesse soprattutto nella regione del West Darfur, che includono saccheggi, uccisioni di massa, stupri come strategia di guerra e pulizia etnica delle minoranze non arabe nella regione. Le Nazioni Unite attribuiscono questi crimini di guerra alle Rapid Support Forces, queste ultime invece sostengono che esse siano perpetrate da milizie indipendenti su cui non avrebbero controllo, nell’ambito di scontri tribali indipendenti dalla guerra tra i generali. Già nel luglio 2023 si era scoperta a El-Geneina una fossa comune dove giacevano ottantasette corpi, principalmente di persone appartenenti all’etnia non araba dei Masalit, minoranza che si concentra in questa regione del Sudan e in quella confinante del Ciad.

Nelle settimane e nei mesi successivi le denunce da parte di testimoni riguardo attacchi ai villaggi nella regione hanno fornito ulteriore consistenza alle accuse di pulizia etnica lanciate alle RSF. Secondo la BBC, per esempio, almeno 68 villaggi sono stati incendiati e conseguentemente rasi al suolo tra l’aprile e il settembre 2023. Nonostante neghino ogni responsabilità in questo senso, le milizie appartenenti e affiliate alle RSF non sarebbero nuove a crimini di guerra di questo genere, soprattutto in questa martoriata regione. Gli analisti, infatti, individuano le origini di questo gruppo paramilitare nelle milizie Janjaweed. Queste ultime nei primi anni 2000, sponsorizzate dal governo sudanese, hanno contribuito alla repressione contro i gruppi di etnia africana che nel Darfur avevano dato vita a una ribellione armata contro il regime militare dell’allora dittatore Omar al-Bashir, di cui, paradossalmente, l’attuale dittatore e avversario delle RSF al-Burhan è il traditore e l’erede.

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Le dittature militari e lo scoppio della guerra in Sudan

Durante la rivoluzione popolare del 2019 che spodesta al-Bashir, al-Burhan volta apparentemente le spalle alla dittatura militare appoggiando l’istituzione di un governo civile, contro cui però sferra un colpo di stato militare nel 2021, assumendo il potere e dando il via a una fase di accentramento della forza militare che mal tollera la presenza di forti gruppi paramilitari indipendenti come le RSF di Dagalo. In questo senso ad esasperare le tensioni tra i due generali è proprio il tentativo da parte del capo di stato di accentrare e rafforzare l’esercito accorpando varie milizie, tra cui quelle islamiste a cui Dagalo si oppone e le RSF stesse.

Paradossalmente, questo accentramento è dibattuto nell’ambito del Framework Agreement che nei mesi precedenti al 15 aprile era in via di discussione, che avrebbe dovuto definire la via per la transizione a un nuovo governo civile. In quella fase, presentandosi sfacciatamente come un “difensore del potere civile”, Dagalo si è ripetutamente opposto all’integrazione di gruppi eccessivamente pro-militari, voluti da al-Burhan, nella leadership militare ad interim che avrebbe dovuto guidare il processo di transizione al governo civile. A far scoccare la scintilla che ha dato il via alla guerra in Sudan, però, è stato il rifiuto di al-Burhan di ammettere la presenza delle RSF come separata da quella dell’esercito ufficiale nella leadership militare ad interim, facendo così esplicitamente trasparire la sua volontà di integrare le RSF nell’esercito, privando così Dagalo del suo potere sul gruppo paramilitare. L’attuale guerra in corso in Sudan si configura dunque a tutti gli effetti come un feroce scontro tra leader sanguinari che ambiscono a null’altro se non al potere, a discapito della popolazione civile.

Stallo diplomatico

Ad oggi il generale al-Burhan, oltre a rifiutare qualsiasi possibilità di dialogo con le RSF, denuncia anche l’atteggiamento dei leader di alcuni paesi africani, in primis Etiopia, Kenya e Sudafrica, che hanno ricevuto Dagalo nel tentativo di aprire la via a un canale di negoziazione alternativo ai fallimentari tentativi guidati, a Jeddah, da Arabia Saudita e Stati Uniti durante i primi mesi di conflitto. Pochi giorni prima del discorso di al-Burhan a Port Sudan invece il capo delle RSF Dagalo si era detto disponibile a concordare un cessate il fuoco chiesto a gran voce da gruppi della società civile. Tuttavia, come commenta ad Al Jazeera David Shinn, diplomatico statunitense ed ex vice-capo missione USA in Sudan, al di là delle parole dei due leader, non appare alcuna reale intenzione da parte loro di rendere possibile un contenimento delle violenze. A dimostrazione della scarsa attendibilità delle dichiarazioni che aprono al dialogo spicca il discorso del 21 dicembre di al-Burhan alle sue truppe, in cui sosteneva che ci fossero possibilità di negoziazione con le RSF. Il giorno successivo sono trapelate informazioni dagli alti ranghi dell’esercito sudanese sulla disponibilità di al-Burhan a incontrare di persona Dagalo. Neanche quindici giorni dopo invece, stando alle parole del capo di stato del 5 gennaio, ogni speranza è svanita.

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La situazione sul campo

Dalla “disponibilità” di Dagalo e dall’attuale rifiuto di al-Burhan di fronte all’ipotesi di una cessazione delle ostilità, dunque, al massimo si possono dedurre considerazioni riguardo lo squilibrio di forze sul terreno. A porre le forze governative in una condizione di debolezza in caso di negoziati, quindi a dissuaderle, ci sono le vittorie sul campo da parte delle RSF, che attualmente controllano diverse aree di Khartoum, il West Darfur e, dal 19 dicembre, Wad Madani, che è la seconda città più popolosa del Sudan ed è stata presa dalle RSF dopo quattro giorni di intensa battaglia, in cui 500mila persone sono sfollate in una città che era diventata rifugio per decine di migliaia di sfollati provenienti da altre aree del paese. Di fronte agli attacchi e alla successiva avanzata del gruppo paramilitare l’esercito ufficiale da mesi si concentra sul difendere le basi militari, con scarso riguardo nei confronti della protezione dei civili, e sul cercare di indebolire il nemico attraverso campagne di bombardamenti aerei che spesso si trasformano in massacri della popolazione residente nelle aree controllate dalle truppe di Dagalo. Secondo l’ONU, infatti, tra i crimini di guerra commessi in Sudan negli ultimi nove mesi ce ne sono svariati imputabili all’esercito ufficiale.

Il doppio gioco degli Emirati Arabi Uniti in Sudan

Come in quasi ogni guerra, a rendere possibile la prosecuzione del conflitto e a intricare la spirale di violenza giocano un ruolo fondamentale gli attori regionali che supportano i belligeranti. Da un lato è dichiarato il sostegno dell’Egitto di al-Sisi all’esercito regolare sudanese. Dall’altro invece gli stretti rapporti tra le truppe di Dagalo e il gruppo Wagner, che opera nella confinante Repubblica Centrafricana, insieme il ruolo degli Emirati Arabi Uniti nel fornire armi e assistere le RSF sono stati portati alla luce da inchieste giornalistiche e attraverso le denunce della popolazione locale. Eppure, è stato proprio il losco ma massiccio intervento emiratino a rendere possibile l’avanzata delle RSF negli ultimi mesi, dopo l’iniziale fase di stallo nel conflitto.

Secondo il New York Times la base operativa degli UAE in supporto alle RSF si trova in Ciad, nella città Amdjarass a ridosso del confine con il Sudan. Il pretesto per consolidare la presenza emiratina nella regione e rendere possibile un supporto militare a Dagalo è stato quello di fornire “aiuto umanitario” ai profughi in fuga dal West Darfur che si sono rifugiati in Ciad scappando dalle rappresaglie del gruppo paramilitare in avanzata. Secondo le rilevazioni satellitari visionate dal New York Times vicino all’ospedale gestito dagli UAE per “soccorrere” i profughi sudanesi c’è una base aerea in cui transitano aerei emiratini quotidianamente da giugno. Gli sceicchi sostengono che tutte le operazioni nell’area sono di natura unicamente umanitaria, eppure dall’inizio della guerra a settembre secondo le Nazioni Unite solo 250 rifugiati sudanesi erano stati registrati ad Amdjrass. Nel frattempo, l’attività dell’ospedale emiratino formalmente dedicata alla cura dei profughi è stata contestata da proteste di alcune tribù locali, che denunciavano l’accoglienza nella struttura dei combattenti feriti delle RSF. I leader degli Emirati Arabi Uniti hanno negato di supportare qualsiasi fazione in conflitto e di essere invece impegnati negli sforzi di mediazione. Non a caso mentre sempre più prove si accumulavano riguardo l’invio di armi alle Rapid Support Forces, gli UAE facevano parte del quartetto, insieme a USA, Regno Unito e Arabia Saudita, che si era proposto di guidare i negoziati.

In fin dei conti, a far calare i sudanesi in un pozzo di violenza sembrano quindi essere autocrati sanguinari, da un lato e dall’altro, che insieme ai loro alleati con scarsa probabilità troveranno un fondo in cui soddisfare la loro sete di potere.

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Francesca Campanini

Classe 1999. Bresciana di nascita e padovana d'adozione. Tra la passione per la filosofia da un lato e quella per la politica internazionale dall'altro, ci infilo in mezzo, quando si può, l'aspirazione a viaggiare e a non stare ferma mai.

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