La famiglia, che grande sciagura. Non la scegli, devi tenere quello che capita. Se sei fortunato te la cavi con qualche trauma o complesso, niente che non si possa risolvere con vent’anni di psicoanalisi. L’importante è non incappare in parricidi e incesti, come il povero Edipo che non solo fu abbandonato, ma, inconsapevole di chi aveva di fronte, uccise suo padre Laio e sposò la madre, Giocasta. L’oracolo di Delfi avrebbe anche potuto essere più preciso, Paolo Fox sicuramente avrebbe fatto di meglio. Dalla letteratura classica ai libri freschi di stampa, lo scontro generazionale – la cui massima espressione è il rapporto genitori-figli – è un abitante indiscusso delle pagine.
Un rapporto difficile, quello di Franz Kafka con suo padre, una figura ingombrante raccontata ne Le lettere al padre (1919), opera che riassume perfettamente quel sentimento di ambivalenza e conflittualità che segna la relazione tra lo scrittore ceco e Hermann Kafka. Come quasi tutti i padri, avrebbe voluto avere un figlio diverso. Come quasi tutti i figli, il desiderio è reciproco.
Di fronte a te avevo perduto ogni fiducia in me stesso e conseguito in cambio uno sconfinato senso di colpa.
Kafka, trentasei anni suonati quando scrisse questa lettera, sente ancora su di sé la presenza schiacciante del padre a cui deve quel senso di insicurezza e nullità che lo assale. Non è facile essere uno dei giovani più promettenti del panorama letterario novecentesco e al tempo stesso figlio di un macellaio, che probabilmente ricordava a Franz ad ogni pasto che con la scrittura non si mangia. Il successo non basta ad annientare i conflitti e l’inadeguatezza: d’altronde, «la fama è una volubile vivanda / sopra un piatto instabile», scriveva Emily Dickinson, anche lei piuttosto in contrasto con i genitori che avrebbero preferito se avesse abbandonato le poesie, dati i suoi problemi alla vista. Aspiranti scrittori, unitevi: la vostra famiglia cospirerà contro i vostri sogni.
Se parliamo del rapporto genitori-figli in letteratura, non è andata molto meglio nemmeno a Lila, una delle due protagoniste de L’amica geniale (2011) di Elena Ferrante: uno spirito ribelle che non ha paura di affrontare il maschilismo e il patriarcato degli anni ‘50, ma che è comunque costretta a sottostare alle idee retrograde del padre che le impedisce di proseguire gli studi. Lila e Lenù sono il giorno e la notte, come spesso accade nelle amicizie più solide. Elena, detta Lenù perché a Napoli nessuno viene chiamato con il proprio nome, è meno intraprendente e più taciturna, ma comunque perseverante verso i propri obiettivi. Lenù, però, riuscirà a continuare a studiare, nonostante lo scetticismo della madre.
«Se non c’e’ amore, non solo inaridisce la vita delle persone, ma anche quella delle città». Non mi ricordo come si espresse di preciso, ma il concetto era quello, e io lo associai alle nostre strade sporche, ai giardinetti polverosi, alla campagna scempiata dai palazzi nuovi, alla violenza in ogni casa, in ogni famiglia.
Le madri fredde e anaffettive non appartengono solo ai rioni del mezzogiorno, anche l’austriaca – e poi neutralizzata americana – Aurelia Schober, madre di Sylvia Plath, è una di queste. La campana di vetro (1963) non è solo il titolo del suo romanzo, è anche condizione esistenziale della giovane poetessa americana, e probabilmente di tutte quelle donne che si trovano costrette a seguire le convenzioni imposte dalla società. Nell’opera, in parte autobiografica, si racconta anche del rapporto soffocante con la madre, alla quale l’autrice mostra solo ciò che l’avrebbe resa degna della sua approvazione.
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Sì, perché Sylvia è un’eterna seconda che comincia ad avvertire un forte senso di abbandono dalla nascita del fratello, il figlio maschio tanto atteso. Sensi di colpa e sentimenti di abbandono saranno i suoi compagni fedeli in una vita breve, terminata con il suicidio, destinata a diventare eterna grazie alle poesie lasciate in eredità al Mondo. Sylvia cresce con quelle profonde insicurezze che solo una figlia non amata può conoscere e comprendere. Da qui il bisogno – l’inquietudine – che la spinge a riempire fogli bianchi con un flusso anarchico di parole come se l’inchiostro potesse colmare anche la voragine che la inghiotte, e che avrà la meglio.
Aprire un libro per aprire la porta delle case e dare un’occhiata a quelle persone accomunate da una manciata di geni, che si aggirano in stanze e corridoi, amandosi o odiandosi. A volte entrambe le cose. Come diceva Dostoevskij, «tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo», e sappiamo che i modi sono molteplici.
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La citazione «tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo» è di Tolstoj, Anna Karenina.
Tolstoj. Troppo famosa per sbagliarla.
Per il resto, ben scritto