Sembra paradossale considerare una questione antica, quasi ancestrale, come quella della violenza contro le donne come un’urgenza. Urgente dovrebbe essere qualcosa di inaspettato, che non si sa come affrontare. Eppure ogni donna lo sa, ogni persona lo sa, che quella della violenza di genere è una realtà presente, dilagante e terrificante. Ce lo ricordano i telegiornali quasi ogni giorno, quando annunciano le minacce, lo stupro o l’uccisione di una donna. Ce lo ricordano le attiviste e gli attivisti, coloro che, a volte urlando in piazza, a volte mettendosi in silenzio al fianco delle vittime, agiscono quotidianamente per un cambiamento concreto. Ce lo ricordano le artiste come Regina José Galindo, che con la propria arte fanno denuncia, fanno politica più di coloro che in politica ci lavorano.
Chi è Regina José Galindo
Nata e cresciuta in Guatemala, Regina José Galindo conosce da subito il dolore della guerra civile e impara presto che cosa significa vivere in un contesto di instabilità e ingiustizia sociale. Nel momento in cui inizia ad avvicinarsi al linguaggio artistico, è quindi quasi naturale per l’artista parlare di ciò che da sempre ha vissuto e conosciuto: violenza, abusi, prevaricazione. In particolare, come racconta lei stessa, durante il conflitto armato, durato quasi quarant’anni, la violenza contro le donne era utilizzata sistematicamente come uno strumento di diffusione di terrore e di annientamento della speranza e della possibilità di un futuro, di una nuova vita.
I primi esperimenti in ambito artistico si rivolgono alla poesia e al disegno. Conosce presto altre artiste guatemalteche, come Jessica Lagunas e Maria Adela Díaz, che la avvicinano alla causa femminista. È però solo nel 1999, all’età di 35 anni, a tre anni dalla fine ufficiale della guerra nel suo Paese, che Regina José Galindo si avvicina alla performance, che diventerà poi il suo linguaggio artistico prediletto. Nel corso della sua carriera come artista visiva ha partecipato a numerosissime esposizioni internazionali come Documenta e la Biennale di Venezia, dove nel 2005 vince il Leone d’oro nella categoria Giovani artisti. Galindo non ha mai abbandonato, però, il suo primo amore, la poesia, ottenendo numerosi riconoscimenti anche in questo ambito.
La forza della rabbia e del coraggio
Ciò che immediatamente colpisce di fronte all’opera di Regina José Galindo è la forza senza filtri con la quale l’artista presenta il proprio pensiero. Quella di Galindo è un’arte minimalista e forse proprio per questo estremamente diretta ed efficace. Non servono sovrastrutture, non serve essere critici e storici dell’arte per leggere ciò che mette in scena. Discriminazione e censura, violenza e abusi. Tutto a causa delle proprie idee ma anche semplicemente di chi si è, di come e dove si è nati. Tutto a causa di un sistema patriarcale e corrotto che perpetra relazioni di potere abusanti.
Leggi anche:
Regina José Galindo: a Palermo un’intensa performance e 60 opere esposte per l’artista guatemalteca
È un’ingiustizia così palese e assurda quella che mostra l’artista guatemalteca che colpisce allo stomaco e fa venir voglia di gridare. Le sue opere nascono da un’esigenza chiara che non si può non ascoltare. Amplificano un malessere, amplificano delle situazioni atroci eppure quotidiane e le sbattono in faccia all’osservatore. Ma allo stesso tempo testimoniano la volontà di un cambiamento, il coraggio di migliaia di persone che di fronte a queste ingiustizie non si voltano dall’altra parte ma le affrontano mettendo a rischio prima di tutto se stesse. Perché in un regime dittatoriale come quello conosciuto da Galindo, l’espressione, anche e soprattutto quella artistica, non è libera e non è senza conseguenze. Ma in un sistema in cui lo svolgersi quotidiano della vita è limitato, indirizzato, talvolta impedito, l’artista trova la propria voce e urla la propria indignazione.
Regina José Galindo urla scrivendo poesie, camminando, disegnando, ma anche mettendo in scena performance crude e talvolta disturbanti. Ma il compito dell’arte non è soddisfare il nostro piacere estetico e tenerci ignoranti nella nostra zona di comfort, lo dovremmo sapere bene ormai.
Figlia di una tradizione
La causa femminista – nel senso più ampio possibile del termine – in ambito artistico emerge quando iniziano ad acquisire visibilità le artiste donne, come è in fondo naturale che sia. Censurate, rifiutate per decenni, secoli dal mondo dell’arte e dalla società, le artiste parlano di sé e dei propri limiti, dei propri desideri, della propria rabbia. E reclamano ciò che è stato negato loro per troppo tempo: una voce. Ana Mendieta, Marina Abramovič aprono linee di pensiero e di ricerca artistica che influenzano e talvolta vengono riprese da artiste successive come Galindo.
Molte performance di Regina José Galindo ricordano i gesti estremi ai quali si è sottoposta negli anni Marina Abramovič. Nella performance del 2005 Perra (Cagna, Puttana), per esempio, Galindo ha inciso la parola che dà il titolo all’azione sulla propria gamba. Una delle sue opere più difficili da affrontare emotivamente, tuttavia, è probabilmente Mientres, ellos siguen libres (Nel frattempo restano liberi), del 2007. Il lavoro prende vita dalla lettura di Memoria del Silenzio, ovvero del rapporto della Commissione per il Chiarimento Storico delle violazioni dei Diritti Umani e Atti di violenza perpetrati sulla popolazione del Guatemala. L’artista, all’ottavo mese di gravidanza, legge con orrore e compassione le testimonianze delle donne indigene incinte stuprate per procurare l’aborto. Decide allora di recarsi in una delle cliniche in cui erano avvenuti gli abusi per recuperare il cordone ombelicale di quei bambini nati morti, con i quali si fa legare mani e piedi, nuda, a un letto. Forse mai come in quel momento, il suo corpo diventa manifesto di opposizione chiara verso un sistema che sopravvive grazie alla violenza e all’oppressione. Diventa opera d’arte totalizzante per lei stessa e per lo spettatore.
Corpo femminile, corpo universale
Il corpo, vero protagonista dell’opera di Regina José Galindo, è un corpo femminile, il suo. Ma è anche il corpo di tutte le donne, è il corpo della società, è un corpo universale. Galindo non vuole “limitare” la propria arte alla propria condizione di donna, ma usare questa prospettiva come punto d’osservazione e riflesso di una società complessa ed eterogenea. E lo fa rendendosi portavoce di una condizione che è profondamente soggettiva eppure al contempo collettiva e universale: il dolore.
L’impotenza sostanziale che l’artista, così come tutti, prova di fronte alle situazioni che vive non le impedisce, forse anzi la sprona, a rivendicare con sempre maggiore forza il proprio diritto alla libertà. Libertà d’opinione, di espressione, di protesta. Ma anche libertà a esistere in quanto donna senza sentirsi esclusa, inascoltata, in pericolo. Lei stessa, le sue parole, le sue azioni e non-azioni, il suo corpo diventa strumento, teatro in cui prendono vita «atti di psicomagia», come lei stessa definisce le proprie performance, dove si esprimono prima di tutto le emozioni e poi si racconta la storia nella speranza e nella fiducia in un cambiamento.
Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!
Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!