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Geertz Wittgenstein relativismo

Il problema del relativismo tra Clifford Geertz e Ludwig Wittgenstein

Che cos'hanno in comune la critica dell’antropologo Clifford Geertz all’antirelativismo e la filosofia di Ludwig Wittgenstein?

12 minuti di lettura

L’antropologo americano Clifford Geertz ha dedicato al problema del relativismo un interessante contributo ora contenuto nel volume Antropologia e filosofia. Il titolo dell’articolo suona come un programma: Contro l’Antirelativismo (titolo originale: Anti-Antirelativism). Clifford Geertz non propone cioè di abbracciare tout court il relativismo antropologico, quanto piuttosto di criticare l’antirelativismo, «versione semplificata di un antico errore», come dice lui. Non vuole difendere ciò che l’antirelativismo critica; vuole «rigettare qualcosa senza con ciò sposare quello che esso rigetta».

Ora, il problema è in qualche modo connaturato alla disciplina stessa. Come ammette Clifford Geertz, è l’antropologia culturale che sembra autorizzare quel banale relativismo del tipo «paese che vai, usanza che trovi». Da qui la paura insorta in chi vede nel relativismo una forma mascherata di nichilismo. Ma ciò non implica affatto che il messaggio dell’antropologia culturale sia che «poiché in Alaska o in D’Entrecasteaux gli uomini vedono le cose diversamente e le fanno altrimenti, la nostra fiducia nelle nostre concezioni e nelle nostre azioni […] sono piuttosto miseramente fondate». Così non è; piuttosto relativismo e antirelativismo sono reazioni generate dall’«impulso centrifugo dell’antropologia». Sono reazioni, ossia travisano i fatti che l’antropologia mette sul tavolo. L’antropologia culturale non dice che poiché in Papua Nuova Guinea (ora non più) i familiari mangiano i propri cari defunti, allora i valori che escludono dalla nostra società le pratiche cannibaliche sono migliori o peggiori dei loro. Clifford Geertz rifiuta la dicotomia relativismo/antirelativismo, e con ciò dichiara che i termini della questione sono male impostati. L’antropologia presenta dei fatti, senza per questo porsi sul piano assiologico.

A ben vedere, però, l’antirelativismo che qui Clifford Geertz critica deve essere specificato: «il “contro l’antirelativsmo” comincia a precisarsi, già ad uno sguardo superficiale, in un “contro l’assolutismo antirelativista fondato sui progetti di ricerca delle scienze biologiche e cognitiva». Egli, dalla sua metaposizione, non si limita a rigettare l’antirelativsmo, ma specifica che è l’antirelativismo, che si appella a pretesi universali biologici e cognitivi, a fraintendere l’oggetto dell’antropologia. Torna uno dei capisaldi dell’antropologia geertziana, ossia il rifiuto opposto all’essenzialismo antropologico, che cerca archetipi universali validi trasversalmente.

Declinato sotto questa accezione, il relativismo diventa il nemico di chi si appella a universali biologici (il concetto di Natura umana) o cognitivi (il concetto di Mente umana). Scrive Clifford Geertz:

Il problema non è se gli esseri umani siano o no organismi biologici dotati di caratteristiche intrinseche: gli uomini non possono volare e i piccioni non possono parlare […]. Il problema, piuttosto, è cosa dobbiamo fare di questi fatti non contestati quando cerchiamo di spiegare i rituali, di analizzare gli ecosistemi, di interpretare le sequenze fossili o di comparare le lingue.

Egli non ha nulla da ridire ai programmi di ricerca delle scienze cognitive o della neuorobiologia, le quali, ad esempio, tentano di definire i processi fisiologici alla base del pensiero o la composizione chimica dei nostri geni. Questo può anche valere universalmente e non vuole delegittimarlo. Anzi, è scontato che la ricerca in queste direzioni sia sul punto di fare straordinarie conquiste, imponendo agli antropologi di prestarvi attenzione.

Non è in questione […] la validità delle scienze […]; mi preoccupano, piuttosto, e dovrebbero preoccupare tutti noi, le mannaie che, con una crescente determinazione che sfiora l’evangelico, si stanno freneticamente affilando con il loro aiuto.

Clifford Geertz sostiene che l’antirelativismo naturalistico e cognitivo travisa l’oggetto dell’antropologia, non veda cioè che è nell’essenza stessa della disciplina studiare e comparare le diversità culturali. L’antirelativismo vive della convinzione che solo ciò che è universale, che supera le differenze, sia profondo. Ma questa convinzione non è sufficiente a ridurre i fenomeni, i dati antropologici, a un nocciolo duro, biologico o cognitivo che sia.

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La critica di Clifford Geertz all’antirelativismo è dunque nello stesso tempo, 1) teorica e 2) epistemologica. 1) Teorica, perché l’osservazione etnografica mostra che le differenze tra culture esistono, ed esistono nonostante possano essere ricondotte a strutture ultime di tipo biologico-cognitivo. Il fatto che gli uomini non volino e i piccioni non possano parlare non inficia il fenomeno dell’alterità, della diversità. E anche se quest’ultima fosse solo un fenomeno, non perciò sarebbe meno reale della sua pretesa causa biologico-cognitiva. 2) Epistemologica, perché è la disciplina stessa, l’antropologia culturale, che assume come proprio oggetto la diversità. O, almeno, l’antropologia culturale così come Clifford Geertz la intende. Abbiamo visto che cercare i caratteri universali del genere umano attraverso l’analisi culturale è, secondo lui, un tipo di ricerca priva di valore euristico. È, come egli scrive, «affogare draghi in tinozze di teoria», quando invece l’antropologo dovrebbe cercare proprio le differenze tra gli uomini.

Nonostante le critiche sollevate contro l’antirelativismo, nonostante le premure di Clifford Geertz profuse nel rigettare il binomio relativismo/antirelativismo, è evidente che la sua sia la posizione (o la metaposizione) di un relativista. Un relativista che, per così dire, auspica una complessificazione del concetto stesso di relativismo. Si è visto che egli ritiene uno spauracchio quel tipo di relativismo che scivola nel nichilismo e che, altrettanto, sostenere che i valori cambino con il variare della cultura non implichi, perciò, la dissoluzione di qualsivoglia valore. L’antropologo osserva, non demolisce, i sistemi culturali. Questo sarebbe, di nuovo, affogare draghi in tinozze di teorie, dimenticando che la diversità è l’oggetto peculiare dell’antropologia (cfr. Capitolo I). Detto ciò, rimane il dubbio teorico se l’anti-antirelativismo sia a sua volta una forma di relativismo o, nel caso non fosse possibile rispondere a quest’ultimo quesito, il dubbio su che cosa sia davvero questo anti-antirelativismo.

Considerazioni simili valgono per la filosofia di Ludwig Wittgenstein. È facile assimilare la posizione di Wittgenstein a quella di un relativista estremo. La non fondabilità della grammatica, dell’immagine del mondo, della forma di vita; l’accordo comune, che secondo alcuni sarebbe l’elemento che legittima le regole del gioco linguistico; l’abbandono della prospettiva trascendentale, propria del Tractatus – tutti questi elementi, insieme ad altri, sembrano indicare inconfutabilmente l’adesione di Wittgenstein a una forma poco temperata di relativismo. Sciogliere questo nodo ci aiuterà a chiarire l’anti-antirelativismo geertziano che, per la legge delle somiglianze di famiglia, può forse essere avvicinando a quanto sostenuto da Ludwig Wittgenstein.

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Come sostiene Silvana Borutti, tuttavia, il tema della differenza, della variabilità delle forme di vita non ha un «significato relativista, quanto un significato essenzialmente etico-ontologico – un significato che implica un’etica dell’investigazione in scienze umane». Il Wittgenstein relativista sosterrebbe che tutti i giochi e tutte le regole, essendo delle convenzioni, hanno lo stesso valore: l’altro mi è identico, è il mio simmetrico nella differenza. Il punto è che «questa nozione epistemologica della convenzione» pensata come «scelta tra alternative indifferenti e simmetriche» è del tutto estranea a Ludwig Wittgenstein. Egli, cioè, non sostiene che l’io e l’altro siano il medesimo, seguendo un principio di indifferenza epistemologica. Wittgenstein, piuttosto, sostiene che:

”io non sono l’altro” e che mi comprendo in rapporto all’altro come il mio altro possibile, per comparazione e differenza, secondo un principio di etica della differenza ontologica – attraverso l’invenzione dell’altro, appunto, e secondo una concezione contrastiva, non simmetrica dell’identità.

Se, come la chiama Silvana Borutti, questa è un’antropologia della possibilità, il suo riflesso è un’antropologia della necessità. Passando per la comprensione dell’altro, comprendiamo la chiusura della nostra identità, la necessità della nostra forma di vita. Ritorniamo così al problema del fondamento: sostenere, come sostiene Ludwig Wittgenstein, che il fondamento non sia né falso né vero significa che non si possa dare del fondamento un’analisi teorica. Il nostro sistema di riferimento ci precede, non possiamo saltarne al di fuori per giustificarlo: sarebbe come segare il ramo sul quale si è seduti. Il fondamento è «il fatto necessario […] il bisogno di accordo in una forma di vita […] una forma possibile che poteva essere differente, ma che è diventata necessaria, fondante, nella misura in cui ha reso la vita possibile».

Wittgenstein e Geertz fanno propria questa prospettiva. La dicotomia relativismo/antirelativismo è superata dalla dicotomia antropologia della necessità/antropologia della possibilità. La necessità sta nella consapevolezza che la forma di vita che fonda i nostri valori, le nostre credenze ecc., sia imprescindibile per la comprensione dell’alterità. L’alterità è ciò che, dialetticamente, riconferma la posizione necessaria della nostra forma di vita e, allo stesso tempo, si configura come possibilità. Possibile è ciò che sarebbe potuto andare altrimenti. Il possibile sancisce la necessità della forma di vita dalla quale proviene il giudizio, senza per questo annullarla o scalzarne le fondamenta.

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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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