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Sui galli di Bali, ovvero: come si fa etnografia secondo Geertz

Secondo Geertz la cultura è come un testo e compito dell'antropologo è interpretarla. Il caso dei combattimenti di galli a Bali è emblematico

17 minuti di lettura

Pubblicato inizialmente nel 1972 sulla rivista Daedalus, ora contenuto nell’edizione italiana di Interpretazione di culture come capitolo conclusivo, il breve saggio Il «gioco profondo»: note sul combattimento di galli a Bali è diventato in poco tempo il più iconico dei resoconti etnografici del grande antropologo americano Clifford Geertz, capostipite della cosiddetta corrente “interpretativa” in antropologia.

I galli a Bali

I galli sono a Bali qualcosa di più di semplici animali, così come i combattimenti di galli sono qualcosa di più di semplici manifestazioni culturali. Difatti, «è indubbia la profonda identificazione psicologica degli uomini balinesi con i loro galli»[1], tanto che a Bali il linguaggio del moralismo quotidiano è intriso di riferimenti ai volatili (un uomo borioso è paragonato ad un gallo senza coda; uno disperato ad un gallo in fin di vita; uno celibe e vergognoso ad un gallo da combattimento ingabbiato per la prima volta e così via). Insieme a ciò c’è che una buona fetta di uomini balinesi, a detta di Geertz, passa un’enorme quantità di tempo con il suo gallo – dato che più o meno chiunque ne possiede uno -, istruendolo, nutrendolo, prestandogli tutte le cure possibili.

Geertz

Questa identificazione monosessuale, tale per cui il gallo è visto quale un doppio della virilità maschile, serba in sé un elemento di ambiguità:

sebbene sia vero che i galli sono espressioni simboliche od esaltazioni della personalità del loro possessore, l’ego maschile narcisistico raffigurato in termini esopici, essi sono anche espressioni – e pure piuttosto immediate – di ciò che i balinesi considerano l’esatto contrario, esteticamente, moralmente e metafisicamente, della condizione umana: l’animalità. [2]

L’animalità

L’uomo balinese teme l’animalità, teme la bestialità: tutti i demoni della religione di Bali sono rappresentati sotto forma animalesca; il principale rito della pubertà consiste nella limatura dei denti del bambino, in modo che non abbiano l’aspetto di zanne; defecare o mangiare sono qui considerate attività oscene, da praticare in modo defilato, residui di una primitività animalesca ed aborrita. Il gallo è dunque il simbolo di quest’ambiguità: esso rappresenta, nella vita balinese, una soglia, un confine labile fra virilità e animalità.

Questa immedesimazione ed insieme repulsione che l’uomo balinese nutre per il gallo trova un’espressione esemplare proprio nei combattimenti di galli, la cui ricorrenza, un tempo assidua, andava scemando negli anni in cui Geertz studiava il fenomeno: «Nel combattimento di galli l’uomo e la bestia, il bene e il male, l’ego e l’id, il potere creativo della mascolinità eccitata ed il potere distruttivo dell’animalità liberata si fondono in un sanguinoso dramma di odio, crudeltà, violenza e morte»[3].

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I combattimenti di galli si svolgono in un ring di 50 piedi, iniziano nel tardo pomeriggio e durano fino al tramonto, di modo che per ogni giornata si tengono tra i nove e i dieci incontri. Ciascun incontro, suddiviso in set, dura poco più di una dozzina di minuti, compresi i tempi necessari alla determinazione dell’avversario e le pause fra un set e l’altro. A combattere è di volta in volta una coppia di galli, entrambi armati di speroni fasciati con cura alle calcagna: dopo che una noce di cocco fatta affondare in un secchio d’acqua ne ha toccato il fondo ed annunciato l’inizio dell’incontro, i due galli avversari sono lasciati a speronarsi uno di fronte all’altro, «in un’esplosione di furia animalesca così pura, così assoluta e, a suo modo, così bella da essere quasi astratta, un’idea platonica dell’odio»[4].

Il gioco d’azzardo

Al di là della sua crudeltà e, evidentemente, riprovevolezza morale, c’è un aspetto del combattimento di galli attorno al quale ruotano tuti gli altri e che funge da ponte «tra le emozioni della vita collettiva e quelle di questo sport cruento»[5]: il gioco d’azzardo. Un insieme estremamente complicato di regole articola un giro di scommesse che, secondo Geertz, rappresenta il vero e proprio luogo del combattimento, mascherato dietro lo scontro fra i volatili.

A guidare i combattimenti di galli vi sono due tipi di scommesse: la scommessa assiale, al centro, tra i due contendenti principali – i proprietari dei galli che combattono; le scommesse periferiche, tutte attorno al ring, tra gli spettatori che assistono. La prima è grossa, la seconda piccola; la prima coinvolge coalizioni di scommettitori, raccolte intorno al proprietario del gallo, la seconda è individuale, da uomo a uomo ai margini del ring. Insomma, la scommessa al centro è quella ufficiale, ben regolata, studiata in modo tale che a confrontarsi siano sempre galli dello stesso livello; le scommesse periferiche dipendono da quella centrale seguendo uno schema fisso delle quotazioni (10-9; 9-8; 8-7 e così via). A dettare le regole del gioco è quindi la scommessa assiale, il cui potere di attirare le scommesse periferiche verso il proprio schema «è direttamente proporzionale alla sua dimensione, perché la sua dimensione è direttamente proporzionale alla misura in cui i galli sono effettivamente di pari forza»[6]. Più il combattimento è ben proporzionato, più le quote delle scommessa tenderanno a salire.

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La scommessa di centro «fa il gioco», o meglio, ne determina quella che Geertz chiama, seguendo Jeremy Bentham, la «profondità»[7]. In sintesi, un gioco diventa “profondo” quanto le poste in palio sono così alte che è irrazionale che gli uomini vi si impegnino: i partecipanti, dopo essersi uniti nella ricerca del piacere, ne ricaveranno complessivamente più dolore netto che piacere netto, il che – utilitaristicamente parlando – ha certamente dell’irrazionale. Ciò non toglie che gli uomini, tuttavia, continuino ad impegnarcisi. Tanto più grandi saranno le quote scommesse, tanto più grande sarà il danno che gli scommettitori subiranno se perdenti e, insieme, tanto più profondo sarà il gioco nel suo complesso. Ma il denaro qui perde parzialmente il suo valore materiale e assurge a simbolo dello status dei partecipanti.

Il combattimento di galli, nella sua cruenta fisicità, si sublima quindi in un combattimento di status, che mette in gioco la gerarchia sociale balinese. Avviene, in altri termini uno spostamento simbolico che accade nel ristretto ring dove i galli si aggrediscono, uno spostamento che si costruisce come l’esatto riflesso della struttura dell’incontro: così come in campo i galli sono due, due saranno i gruppi corporati avversi che si affronteranno. Lo stesso vale per le scommesse periferiche: chi gioca al di fuori della scommessa assiale supporterà il gallo che appartiene alla sua fazione, al suo gruppo corporato.

Geertz

Evento simbolico

Nei termini dell’analisi geertizana, il combattimento di galli è reinterpretato alla stregua di un evento simbolico che mette in gioco lo status dei partecipanti. Esso «rende comprensibile l’esperienza comune, quotidiana, presentandola in termini di azioni ed oggetti le cui conseguenze pratiche sono state rimosse […], dove il loro significato può essere più fortemente articolato e più esattamente percepito»[8]. Geertz affianca negli intenti il combattimento di galli a opere come Re Lear o Delitto e castigo: essi non cambiano i fatti – così come gli incontri fra galli balinesi non modificano realmente le posizioni di status dei partecipanti –, ma ordinano temi fondamentali dell’esistenza (la paura, la virilità, la morte, l’orgoglio ecc.) sottoponendoli a un’interpretazione. Sono – i combattimenti, Re lear e Delitto e castigo – commenti metasociali sulle questioni dell’esistenza collettiva, glosse a margine che la rendono significativa. Ciò significa, di nuovo, che la complessa simbologia che ruota intorno al e costituisce il combattimento di galli, non solo ha funzione, per così dire, teorica: rende cioè significativo un complesso di eventi e strutture, come gli scontri tra status o le gerarchie sociali. Non solo ha funzione teorica, per l’appunto, ma per di più, nello stesso tempo, ordina pragmaticamente l’agire dell’uomo. In questo senso la funzione simbolica del combattimento di galli «è interpretativa: è una lettura balinese dell’esperienza balinese, una storia che si raccontano su se stessi»[9].

La cultura come testo

È una lettura, come, punto fondamentale nell’antropologia di Geertz, è la cultura nel suo insieme, che Geertz tratta come un testo da leggere piuttosto di un puzzle da comporre. Considerare il combattimento di galli come un manoscritto, confuso e da ricostruire, le cui parti rimangono di primo acchito inaccessibili, fa luce sul tipo di coinvolgimento che cattura gli spettatori nel sanguinoso gioco sociale: gli spettatori stessi assumono un ruolo attivo nel momento in cui si ritrovano a leggere quel particolare tessuto di significati che è il combattimento di galli.

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L’antropologo, quindi, più che sistematizzare, traduce un complesso simbolico a lui estraneo in un altro, familiare. L’operazione qui delineata è in qualche modo analoga a quella della traduzione di un testo da una lingua all’altra. Non si tratta, banalmente, di traslare parola per parola una frase dalla lingua A ad una lingua B. Si tratta di un più ampio processo di comprensione, che richiede una certa affinità con la forma di vita che va interpretata, o meglio, una certa affinità con il sistema simbolico che, in definitiva, costituisce quella vita stessa.

Geertz

Thin e Thick description

Se la cultura si costituisce come un’ampia reti di significati, la forma metaforica che più le si addice è quella della testualità, che a sua volta legittima il carattere interpretativo rivendicato da Geertz per la sua antropologia. Dato che è un testo che l’antropologo si trova di fronte, un testo redatto da altri, un testo implicante un sistema di simboli che gli resta estraneo, ciò che questi – l’antropologo – si propone è di interpretarlo e restituirne una lettura il più vicina possibile a quella dei suoi autori, nel nostro caso i balinesi. L’antropologo deve cioè muoversi tra un livello descrittivo thin (sottile) ed un livello thick (denso), laddove è nella densità stratificata di significati – qual è ad esempio il combattimento di galli in quanto combattimento di status – che risiede l’oggetto dell’etnografia.

Nell’antropologia […] ciò che gli specialisti fanno è etnografia. È solo comprendendo che cosa sia l’etnografia […] che si può cominciare ad afferrare in che cosa consiste l’analisi antropologica come forma di conoscenza. […] Ciò che la definisce è l’attività intellettuale in cui consiste: un complesso avventurarsi, per usare il termine di Gilbert Ryle, in una “thick description” [10].

È qui, nella thick description, ossia nella descrizione che ricolloca entro il sistema complesso di significati entro cui esso sorge, che risiede l’oggetto dell’etnografia: «una gerarchia stratificata di strutture significative nei cui termini sono prodotti, percepiti e interpretati tic, ammiccamenti, falsi ammiccamenti, parodie, prove di parodie e senza le quali di fatto questi non esisterebbero»[11].

L’analisi antropologica si basa sulla scelta delle «strutture di significazione […] e nella identificazione della loro base sociale e della loro importanza»[12]. Segue che tale scelta, che possiamo assimilare all’atto interpretativo stesso, debba essere orientata rispetto agli attori che interpreta: la significatività dell’falso ammiccamento del terzo soggetto è comprensibile esclusivamente tenendo fermo il punto di vista di chi la compie. La ricerca etnografica «consiste nel metterci nei loro panni»[13], e non nel «diventare indigeni»[14], cosa che solo «i romantici o le spie»[15] troverebbero sensata. Ogni descrizione di una cultura, cioè, dev’essere espressa nei «nei termini delle interpretazioni che, così come noi le immaginiamo» gli appartenenti a quella cultura «attribuiscono al mondo in cui vivono, alle formule che usano per definire quanto accade loro»[16].

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[1] C. Geertz, Interpretazione di culture, cit., p. 389.

[2] Ivi, p. 387.

[3] Ivi, p. 394.

[4] Ivi, p. 396.

[5]Ivi, p. 399.

[6] Ivi, p. 409.

[7] Ibidem.

[8] Ivi, p. 423.

[9] Ivi, p. 430.

[10] Ivi, p.12.

[11] Ibidem.

[12] Ivi, p.17.

[13] Ivi, p.21.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, p.22.

[16] Ivi, p.23.

[17] Ibidem.

Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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