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Il ruolo impossibile di una società civile dimenticata

I marginali, tutti, condividono lo stesso destino, eppure tutti avrebbero bisogno di una voce che si alzi a dire che quel destino non è degno.

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Ma che cos’è questa società civile avversa al fenomeno migratorio che secondo i sondaggi voterà a destra, mossa da ideali razzisti, dalla ricerca di un capro espiatorio? Questa parola: società civile, un tempo piena di significati, sembra ormai vuota. Avanziamo dunque un’ipotesi.

Forse molta parte di questa società civile non è altro che la gran parte della popolazione: persone che vivono in piccoli pesi o province spesso poco note, posti periferici, non solo materialmente o spazialmente, ma anche simbolicamente e mediaticamente. Luoghi in questo senso marginali dove – che si conviva o meno con il fenomeno migratorio – sembra che si non faccia altro che inseguire le spiegazioni alla ricerca costante di un capro espiatorio. Ma ci basta questa spiegazione?

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Per capire cosa sia questa società civile è importante dare conto di un’involuzione culturale e antropologica che, in uno modo o nell’altro, tocca tutti. 

La marginalità spaziale simbolica che spesso, ma non sempre, è anche reale fa letteralmente a botte con quello che è il nostro sistema attuale in cui la logica di mercato è entrata per vie sottili nel quotidiano distorto di tutti. Lo spazio virtuale ci permette di dare un’ immagine di successo in cui si può vendere – anzitutto noi stessi – come merce. Ciò crea un senso di frustrazione profonda in coloro che si vedono da una parte accedere ad una fonte di visibilità, dall’altra lasciati, a livello socio-politico, realmente ai margini. 

Questa combinazione drammatica – frutto del potere del mercato di dare accesso, democraticamente, a tutti a una certa rappresentazione mercificata del sé, ma al contempo di nascondere in tal modo il mancato accesso di molti ad una reale condizione di miglioramento della propria condizione marginale – è totalmente deleteria

A ciò si aggiunge l’amara constatazione che il discorso sulla marginalità di classe proprio quando servirebbe di più – in questo contesto in cui il mondo virtuale è diventato specchio per le allodole di una democratizzazione dei costumi – in realtà non è più nemmeno menzionata nelle agende di quasi tutte le parti politiche. 

Una grossa fetta della popolazione è quindi lasciata in una costante marginalità mediatica, in condizioni spesso di marginalità economica e sociale, eppur tuttavia gli è concessa la candida speranza di potere mostrare grazie alla propria identità virtuale un presunto accesso a fantocci diritti di consumo (di un’immagine, di un brand, di uno stile di vita)

Ecco che così coloro che vivono isolati, nelle periferie, ai margini del centro, acuiscono inconsciamente un senso di frustrazione in questo mondo di accessibile inacessibilità. Una frustrazione che in fondo non ha molto di diverso da quella dei molti giovani che partono da alcuni paesi dell’Africa per potere anche essi accedere al modello di benessere e lusso occidentale (e come biasimarli, gli abbiamo prima tolto tutto e ora sbandieriamo quanto ci siamo fatti belli, ricchi e instagrammabili sulle ceneri delle loro risorse).

I marginali, tutti, condividono lo stesso destino, eppure tutti avrebbero bisogno di una voce che si alzi a dire che quel destino non è degno. Solo che questa voce – rispetto alle lotte dei lavoratori, delle periferie, dei piccoli paesi in molte regioni di Italia ancora poverissimi, dove anche la risorsa agricola è stata distrutta e abbandonata per nuovi interessi economici che non danno infine lavoro a nessuno, se non sottopagato o sfruttato – questa voce non c’è.

E in fondo in qualche modo queste persone condividono lo stesso destino degli immigrati che dopo lunghe peripezie approdano in Francia e vengono ghettizzati. Quest’ultima è una ghettizzazione comoda materiale, necessaria ai governi che si sforzano di nascondere un’esclusione sociale e culturale sotto la garanzia di qualche sussidio economico. L’altra è una ghettizzazione sottile, malcelata da tutti gli specchi per le allodole che il mercato fornisce. Ghettizzazione di coloro che hanno perso potere sociale perché nessuno si ricorda più di loro. Perché le risorse spesso comunitarie, come accadeva nei villaggi un tempo contadini, sono addirittura state umiliate, non solo materialmente, ma anche simbolicamente.

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Tuttavia in molta parte dei discorsi radiofonici e televisivi sembra che imperi la semplificazione. E quando si parla di immigrazione e dell’elettorato che vota, e voterà, a destra è evidente come entrambe le immagini, sia dell’elettorato razzista punta-dito sia degli immigrati, siano marginalità mediatica, in condizioni spesso di marginalità economica e sociale, eppur gli è concessa la candida speranza di potere mostrare grazie alla propria identità virtuale un presunto accesso a fantocci diritti di consumo (di un’immagine, di un brand, di uno stile di vita) intagliate senza il giusto diritto che su di loro si elabori un discorso più articolato. E se questo è un diritto dovrebbe esser costituzionale.

Inoltre, nel dibattito, si sente spesso argomentare riguardo al fatto che la migrazione dei rifugiati ucraini e anche, in minor misura, la migrazione per rotta balcanica siano più accettate dall’opinione pubblica rispetto ai flussi marittimi nel Mediterraneo. Di fronte a questo dato dovremmo tuttavia chiederci come sono state narrate mediaticamente queste storie.

Sembra che sulla rotta mediterranea si spendano non solo attenzione ma anche risorse (sembra anche se in realtà non è così). Qual è l’idea che questa narrazione crea nella percezione dell’ascoltatore? E quali deleterie conseguenze in assenza di un altro discorso?

Se mediaticamente avesse un luogo di sviluppo concreto un discorso che riguardasse chi è povero, marginalizzato, umiliato economicamente, illuso che la materia del suo lavoro sia l’ottenimento di bene fittizio di lusso, illuso che un giorno potrà avere la tutina di Gucci (perché anche lui nella realtà virtuale c’è, condivide la stessa realtà dove la tutina se la mette il suo cantante preferito multimilionario)

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Se questa gente avesse un discorso tagliato sul loro reale linguaggio di vita, codice del quotidiano, forse non sprecherebbe tempo a cercare un accesso ad un codice di valori posticcio tanto caro al mondo virtuale in cui il mercato è legge, e forse sentirebbe che anche il linguaggio del proprio quotidiano e le risorse che ne derivano, simboliche e materiali, possono avere dignità̀.

Dare dignità a qualcuno passa per vie sottili, la dignità a quella società civile “razzista” non la si dà buttando questa categoria come carne da macello su tutti i quotidiani. Il razzismo stesso quando è profondo si combatte con l’arma della profonda comprensione del fenomeno dando voce a linguaggi di vita che esistono, e non a qualsiasi giornalista o intellettuale che riduce a quattro modelli in croce con pressappochismo il fenomeno (tra cui l’insopportabile legge mai approfondita della ricerca di un capro espiatorio per esempio). Quando il razzismo invece è superficiale – intendo l’esito di qualcos’altro – capire che esso spesse volte è il frutto stesso delle narrazioni che circolano: polari, banali, manichee, a cui si attacca chi non sente che la sua vita è resa degna perché sottilmente fatto fuori da questa possibilità.

società civile

Ecco perché poi queste stesse persone voteranno Giorgia Meloni pensando alle presunte risorse spese nel Mediterraneo, alle attenzioni che il fenomeno migratorio riceve ( anche solo perché strumentalizzato nel dialogo politico), e alla loro continua lotta per emergere con i mezzi sbagliati rimanendo però sempre in quel destino di marginalità che il mondo gli ha tagliato addosso.

Vero è che forse per alcuni gli Ucraini hanno più diritto di migrare, ma forse non solo perché la loro pelle è bianca, ma perché la loro storia è stata narrata come una storia di diritto a migrare. Mentre dell’Africa, Afghanistan, Siria in realtà chi ne parla davvero più, se non asserendo, con un implicito silenzio, che in questi luoghi la guerra è normale. Di queste storie di guerra non si conoscono amici e nemici, vittime e carnefici, e ci sembrano talmente normali queste guerre e disgrazie che facciamo un’associazione che va ben oltre il razzismo ed è molto più sottile: la morte è nera per noi, il senso di morte, il rischio, la violenza è una cosa che viene da fuori, straniera, esotica non ci riguarda più dal dopoguerra in poi, e non ci deve riguardare.

Un discorso poco attraente perciò parlare di queste disgrazie che fa sì che in pochi davvero puntano il dito su chi queste guerre le ha volute. Non vogliamo parlarne perché noi viviamo il sogno del nostro modello di vita giovane e bellissimo dove non si muore mai. Pensiamoci perché questo è un razzismo più profondo che va ben oltre il colore delle pelle.

E stiamo attenti perché la società civile – non quella degli elettori fessi e razzisti – ma quella delle anime belle – giornalisti, intellettuali dell’ultima ora, privilegiati di una società con pochi privilegiati, che dovrebbero anche solo per questo avere un ruolo critico – sono alla fine i primi ad essersi abituati che in certi luoghi ” tanto esotici” sia normale vivere nel disagio, nella guerra, accanto alla morte e di conseguenza migrare, e invece nella nostra Europa non lo sia. Corrisponde alla verità certo, ma abbiamo smesso di chiederci perché le cose vanno così e ci piace tanto intervenire sulle conseguenze con toni assistenzialisti e indignati, ma molto poco sulle cause. Preoccuparsi di un sintomo e non cercare la causa rischia di risultare un modo per essere connivente con la causa.

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E questo accade perché forse anche noi siamo un po’ servi, si potrebbe supporre, e non vogliamo esporci e mettere a repentaglio la nostra bella immagine e non vedere e venderci secondo il gusto corrente con il rischio di essere scomodi

Concludendo. Torniamo a parlare di lotta di classe e immaginiamo un mondo dove l’apice del godimento non sia l’accesso a beni simbolici di distinzione. Boicottiamo questo modello. Forse la società civile – che si spera avrà finalmente un volto – ne trarrà giovamento e se riusciremo ad accogliere chiunque ne abbia bisogno da ogni paese sapremo mostrargli la vera dignità di essere dentro i propri panni e non sentirsi ai margini.

Insomma che coloro che migrano arrivino in un luogo dove la lotta per la dignità di tutti già esista. E magari – sognando – qualcuno di loro tornerà indietro e casa per scelta e saprà fare di questa ispirazione una forza per cambiare da dentro le sorti del proprio mondo.

Articolo di Livia Bigi

Redazione

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