Molto più di una reietta
C’è un personaggio, nell’universo morantiano de La storia, che dalla critica è stato finora analizzato unicamente per la sua appartenenza a un insieme più ampio o a una macrocategoria: quella di donna, di emarginata, di reietta della società.
Si tratta di Santina, la prostituta quarantottenne «dallo sguardo fondo senza luce», la «bambina dal cuore puro» cui Davide Segre allude nel corso del suo delirante discorso all’osteria.
L’incontro con Santina
Ida la conosce dopo il suo trasferimento presso i Marrocco, una coppia ciociara con un appartamento al Testaccio. Alloggiata con Useppe nella camera lasciata vuota dal figlio Giovannino – da tempo impegnato nella disastrosa campagna di Russia -, la protagonista del romanzo entra in contatto con Santina in virtù delle numerose visite di questa in casa della famiglia, desiderosa di conoscere dalle carte il destino del giovane disperso.
Santina infatti sa «leggere l’ignoto» anche se il suo mestiere principale è però «la mignotta», con un «magnaccia più giovane di lei di molti anni» e un terraneo dalle parti di Porta Portese.
Prostituzione e sacralità
Santina è una prostituta come ce ne sono tante nel degradato sottobosco romano ma reca in sé quell’impronta di ingenuità drammatica che la rende un bellissimo personaggio novecentesco.
Prima ancora, però, Santina è uno dei caratteri tipicamente morantiani. Come nota Monica Zanardo, la prostituzione è «un’immagine ricorrente lungo tutto l’arco della sua produzione letteraria e si intreccia a un’altra costante della scrittura di Elsa Morante, ovvero l’allusione a temi religiosi».
Non è certo un caso, dal punto di vista onomastico, la scelta di nomi come Rosaria, Maddalena, Maria o, appunto, Santina. Così come non lo è, per Pier Paolo Pasolini, la decisione di battezzare le “sue” prostitute Stella, Amore o, ancora, Maddalena. Tra i due c’è un filo rosso che corre lungo i binari del sacro, attraversa le tappe della Passione e della redenzione e si congiunge, ad summa, nella comune “ossessione” per Cristo.
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Erotismo e tabù sociali
La risposta fornita da Elsa Morante all’indagine promossa da Nuovi Argomenti sull’erotismo in letteratura è allora fondamentale per illuminare le diverse sfumature assunte dalle “donne di vita” dei suoi testi:
L’erotismo è un’affermazione spontanea della vita, e un elemento vitale della sostanza umana; e non si può trattarlo come un argomento spregevole quando si rispetta la persona umana nella sua integrità.
È un ribaltamento di prospettiva curioso ma necessario: non è l’erotismo – qualunque forma esso assuma – ad essere scandaloso, bensì la censura, il tabù dell’istituzione, una presunta idea di normalità imposta dal senso comune giudicante.
È in questi termini, allora, che personaggi come Rosaria di Menzogna e sortilegio o Assunta de L’isola di Arturo (non propriamente una prostituta, ma vedova assimilata dal protagonista a una «troia») hanno la capacità di svelare l’ipocrisia borghese.
Sono campioni di un’umanità diversa in grado di opporsi – purtroppo a volte soccombendo – al filisteismo della normatività. E così è Santina, che ricorda già dalla descrizione esteriore quelle prostitute amate e proposte dagli espressionisti (da Grosz a Kokoschka, al citato Viani).
Il “brutto” che smaschera l’ipocrisia
Con il viso sgraziato, i lineamenti consumati e marcati, Santina riecheggia fin quasi in maniera topica la prostituta Elisabetta della Scoperta della terra di Marcello Gallian, o la Grazia di Lorenzo Viani; è la “poetica del brutto” in cui il deforme si fa filtro espressivo delle sofferenze dei personaggi e insieme ne opera il riscatto etico.
E anche Santina, al pari delle altre puttane morantiane, riesce con la sua diversità a smascherare «il disfacimento dell’omologazione piccolo-borghese» che non si attiene – a differenza dell’erotismo – al «fondamentale rispetto per la persona umana».
Santina, agnello sacrificale
Ecco allora che la furia che porta il suo protettore Nello D’Angeli ad ucciderla assume un carattere fondamentale alla luce di un’infanzia trascorsa in orfanotrofio a causa dell’abbandono da parte della madre che – proprio come Santina – “faceva la vita”. Nello è ossessionato dall’idea di normalità ed è sulla base di tale logica che uccide Santina, incarnazione di quell’amore che lui, come protettore di una prostituta, non dovrebbe nutrire[1].
Ma la sua morte, oltre a sviscerare la natura di un crimine inscrivibile nella sfera della normatività sociale, conferisce a Santina un’aura di sacralità. Ancor prima di essere simbolo di un’umanità incompresa e sfruttata, la prostituta di Porta Portese assimila in sé diversi aspetti di figura Christi nel nesso martirico di capro espiatorio.
È chiaramente a lei che Davide allude quando nel discorso pronunciato in osteria parla del vero Cristo: «si nasconde in una vecchia puttana: tròvatemi!». Cristo che il Novecento avanguardista e ateo – debitore di Charles Baudelaire e di Friedrich Nietzsche – ha recuperato e riscattato nel suo valore simbolico e sofferto. Ma anche Cristo come capro espiatorio, che ha preso su di sé i peccati degli uomini ed è morto per salvarli.
Tale è la Santina di Elsa Morante – così come Useppe – che rivive l’esperienza dell’agnello di Dio il quale «siccome lo scandalo era necessario, lui si è fatto massacrare oscenamente». È vittima di colpe non sue e accetta il ruolo assegnatole dalla sorte e dalla società.
Quando nel delirante monologo all’osteria Davide lancerà una serie di accuse che avvicinano Santina a Useppe, parlerà di una «vecchia puttana» come «bambina dal cuore puro», perché ignara, ingenua, come del resto la Morante ce l’aveva presentata all’inizio, con quel sorriso che «aveva un che di indifeso e di colpevole» nel senso di colpe non sue. Ad essere una colpa, anzi, è l’innocenza.
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Ecco allora che la follia omicida di Nello D’Angeli nell’uccidere Santina è una riproposizione, sotto altre vesti, dell’episodio narrato da Davide a Useppe dell’Esse Esse condotto al patibolo che scorge in un fiore «tutta la bellezza e la felicità dell’universo» . Nella consapevolezza di aver trovato la bellezza e, forse, la salvezza, il soldato viene colto da un raptus e strappa e calpesta quel fiore.
A Santina non spetta altro che la morte perché non c’è spazio, nella grettezza della normalità, per un misero fiore. Così come per l’Ettore di Mamma Roma, che muore come Cristo in croce su un letto di contenzione per un sacrificio voluto dal destino.
Anche questa è una morta tragica, di un capro espiatorio che paga per tutti nonostante la sua innocenza o piuttosto per colpa di essa. E a Mamma Roma non resta nient’altro che un urlo disperato, pronunciato davanti alla distesa dell’Urbe ma ridotto al silenzio. Il silenzio di chi, nel proprio sogno “fariseo”, non ha saputo cogliere la bellezza di un fiore selvatico.
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[1] Mandolini Nicoletta., Il femminicidio raccontato in Artemisia di Anna Banti e La Storia di Elsa Morante, in L’italianistica oggi: ricerca e didattica, Atti del XIX Congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma, 9-12 settembre 2015)
Ginevra Amadio