Chissà se prima o poi troveremo nelle sale italiane Sauvage (Selvaggio) di Camille Vidal-Naquet, presentato alla Semaine de la Critique 2018 di Cannes e uscito nei cinema francesi lo scorso agosto.
Sicuramente, in patria la pellicola ha ottenuto grandi soddisfazioni, soprattutto per il suo giovane protagonista, Félix Maritaud – che già aveva recitato in 120 battiti al minuto, quasi ignorato in Italia. L’attore ventiseienne ha infatti vinto per la sua interpretazione in questo film il premio Louis Roederer per la migliore rivelazione a Cannes e il Valois per il miglior attore al Festival del cinema francofono di Angoulême.
Uno zoom su un problema ignorato
Selvaggio di Vidal-Naquet tratta una tematica ampiamente ignorata, quella della prostituzione maschile, di cui in effetti si sa e si parla poco. Prima di realizzare il film, il regista ha voluto conoscere le storie dei ragazzi che si vendono per pochi euro al Bois de Boulogne.
Il Selvaggio del titolo è Léo (Félix Maritaud), ventiduenne dagli occhi da cerbiatto che si prostituisce per le strade di Strasburgo; selvaggio perché è un reietto, ai margini della società. Allo spettatore non è dato di sapere come abbia fatto questo ragazzo a finire sulla strada – viene solo accennato che Léo non ha alcun rapporto con la famiglia. Conta solo il suo presente di degrado e spesso di violenza.
Un pugno nello stomaco
In diverse scene, il film è un vero pugno nello stomaco (ovviamente, non è adatto a un pubblico troppo giovane). Forse, proprio perché non si sa nulla della prostituzione maschile, Vidal-Naquet ha voluto mostrare sul grande schermo la realtà in cui si trova a vivere Léo, senza edulcorare nulla. Lo spettatore lo segue così nei suoi incontri con i clienti, da vedovi in cerca di compagnia a veri e propri sadici che, una volta pagato, pensano di poter fare qualunque cosa a un ragazzo considerato un oggetto come un altro. Léo si stordisce col crack, per non pensare. Tutto questo fa inevitabilmente male allo spettatore. È giusto che sia così.
Eppure, non manca una certa poeticità, se non dolcezza. Per tutti i novanta e passa minuti di film, Léo cerca e chiede amore. È l’unico che non si rifiuta di chiudere gli occhi e baciare i clienti, probabilmente immaginando di essere altrove, con qualcun altro. Arriva ad addormentarsi tra le braccia di un anziano cliente; ciò che conta è che delle braccia lo stringano, non tanto a chi appartengono.
Paradossalmente, la scena che più resta impressa, in un turbinio di brutalità, non è una scena violenta. Una dottoressa fa sedere Léo sul lettino e lo visita. Per età, potrebbe essere sua madre; c’è delicatezza nel suo tocco, nel modo di auscultarlo. Dal nulla, nel bel mezzo della visita, Léo chiude gli occhi e l’abbraccia. La dottoressa non se lo aspetta, ma poi ricambia l’abbraccio di quel ragazzo dal volto tumefatto, gli accarezza i capelli. È una tregua silenziosa dalle brutture della quotidianità di Léo.
Nessuna redenzione
È solo una tregua, però. Non c’è alcuna redenzione per Léo, forse perché lui stesso non riesce a immaginare una vita diversa, nemmeno quando un uomo d’affari lo trova agonizzante dopo le torture inflittegli da un cliente e decide di prenderlo con sé. Gli offre una vita nuova, in Canada, una vita totalmente diversa. Léo arriva fino al gate ma, guardando gli aerei che decollano e fuggono lontano, qualcosa in lui si blocca. Il presente di Léo è così forte da impedirgli non solo di guardare indietro, ma anche di provare a guardare avanti.
Nell’ultima scena, Léo si addormenta in un bosco non lontano dall’aeroporto. Ha appena perso il volo per Montréal, la speranza di una vita altra. Un po’ ricorda il Dormiente nella valle dell’omonima poesia di Arthur Rimbaud – sembra dormire tranquillo, ma è ugualmente spacciato. Scorrono i titoli di coda, lo spettatore lo deve lasciare solo. Forse, guardando Léo dormire sull’erba con una giacchetta come unica coperta, ha pensato proprio al verso della poesia che diceva «Natura, cullalo tiepidamente: ha freddo».