La Sicilia ha un’estensione di 25.711 chilometri quadrati. Le tempistiche stimate da Google Maps per attraversarla sono in largo di 4 ore e in lungo di 2 ore, circa. Eppure, a farsi trainare dai solleciti consigli dei siciliani, non basterebbe una vita per assaporarla come richiede. Con lentezza, e leggerezza, e dedizione. Gli itinerari che si possono scavare a quattro ruote sono vasti e vari e vibrano su toni differenti a seconda del tempo, delle preferenze, dell’istinto. A scegliere la costa della Sicilia orientale, sicuramente c’è da orientarsi su Siracusa con Ortigia, Noto, Modica, Ragusa con Ibla, sulla secca riserva di Vendicari, sull’estrema Isola delle Correnti, su Punta Secca schiaffata dal vento.
Le cittadelle della Sicilia da tempi infiniti sono arrampicate sui saliscendi delle colline, con i loro mattoncini di case quadrate e usurate e levigate dalla storia. Il piede cede ogni tre passi sulle pietre sconnesse del selciato, la gamba rigorosamente inclinata di 45 gradi nelle vie che si inerpicano verso il cielo. C’è bianco sporco ovunque, con lampi di luce che accecano. Si va avanti a testa china, contando le pietre che si lasciano indietro. Il Barocco li impregna tutti, questi paesini, e l’aria intorno sa di dismesso, di nostalgico. Il Duomo, o la Cattedrale, custodiscono i migliori punti panoramici, si sono arrogati per primi i posti più belli.
Per arrivare a Ibla, centro storico di Ragusa, c’è un percorso di strette e larghe scalinate, che curvano scavando passaggi tra le case di pietra. È un labirinto impossibile da tracciare su carta, che improvvisamente si schiude su scorci mozzafiato. Ad arrivar su è una fatica di gambe che rende incredibilmente sapidi i luoghi conquistati.
Anche Modica è per scalatori, più espansa, più triste. Il balsamo che qui lenisce le fatiche è il celebre cioccolato di Modica e non si sa, meglio non chiedere, dove sta quello più bbuono. La lavorazione è “a freddo”, esclude la fase di concaggio. Non ci sono sostanze estranee, il colore è nero scuro con riflessi bruni, la consistenza è granulosa, grezza. A infilarne in bocca un pezzetto si sente subito la differenza, nel corpo prima ancora che nel gusto.
Piazza Armerina è appollaiata su una collina più all’interno, circondata a perdita d’occhio da un deserto di colline sorelle, aride, di un giallo secco, punteggiate di ruderi qua e là. A Piazza stanno ancora le curticchiare, le vecchie siciliane, inguantate nei loro vestiti neri, bisbiglianti, giudicanti. Il loro udito corre per i muri, si insinua in ogni anfratto. Fanno paura, fanno distogliere lo sguardo, come se a un tratto ci si trovasse dinanzi alla morte e si è presi alla sprovvista, ancora sudici dei propri peccati.
Sulla costa, Ortigia di Siracusa è più distesa, meno carceraria. Sulla piccola isoletta collegata da lingue di terra alla terra, sono affastellate casette piccole, chiare, vicine le une alle altre. A sgusciare tra i vicoli ci si sorprende continuamente della fantasia poetica dei siciliani, del loro stare al mondo, placido, e divertito. «Non mi parcheggiare la nonna, la suocera, la moto, il camion, il carrello. Apro e chiudo e ancora non voliamo. Grazie» svolazza su una porta.
Ed è così che si sta in Sicilia, così come si sta a leggere quelle due righe, bonarie. Con un sorrisetto gustato perennemente stampato sulle labbra. Lì sì, che si vive con piacere. Come fanno i siciliani tra di loro, come fanno coi turisti, che non vengono snobbati, anzi invitati a suggere tutto quel che si può dalle loro terre meravigliose. Ogni siciliano degno di questo nome tesse le lodi del suo angolo di mondo, quello che, lui al centro, è contenuto in una circonferenza di massimo dieci chilometri di raggio. Delle bellezze, bellezze certo, più distanti, sanno poco o nulla. «Ma pecché andare lontano, ci sono un sacco di situazioni qui intorno».
Magari è una vita che fanno lo stesso tragitto, che è ancora quel percorso casa-scuola che facevano da piccolini. Eppure ci provano un incredibile gusto, tutte le volte, a rinfilare i piedi sulle orme di ieri. E potrebbero farlo a occhi chiusi, che tanto riconoscerebbero comunque il bottegaio, la vecchietta, il panettiere, il giornalaio, il netturbino, la suocera, l’amico, il prete che devono salutare diffusamente prima di rincasare. Chissà quante novità dal giorno prima, in un paesello di trecento anime.
A infilarsi a Catania in macchina ci si sente come un pesce vivo, al mercato del pesce. Coltelli e asce e mani guantate aggrediscono da tutti i lati ed è un montare di ansia, nausea, inchiodate e strombazzate. L’atteggiamento fatalista è quello consigliato per l’ingresso e la permanenza in auto in città: succederà qualche disgrazia. Inutile girarsi continuamente di scatto a controllare se il piede c’è ancora, di quel vecchietto che si è tuffato in mezzo alla strada per attraversare. Si moltiplicano solo le probabilità di incidente. Improduttivo passare continuamente a verificare se i bagagli sono ancora lì, in macchina, tanto «se è una Cinquecento L sicuro che ve la aprono».
Occorre semplicemente prendere atto che il Codice della Strada, in Sicilia, non ci è ancora arrivato. Magari tra qualche annetto, senza fretta. La prassi, è schiamazzare il più possibile, senza agitarsi o scatenare agitazione. Tanto le macchine si avvicinano, si sfiorano, ma alla fine non si scontrano. Come loro, vogliono solo parlarti vicinissimo e strombazzare un po’, per far caciara, per far passare la vita. I bambini non si investono, le ruote non si bucano, i finestrini si rompono, ma solo qualche volta.
Si veleggia lento, in Sicilia. Si mangia piano e a lungo. Si raccolgono i prodotti della terra, con mani rugose, rilassate. Ci si lascia indorare al sole, tutto il giorno, tutti i giorni. Non si esce dalle proprie case, dalle strade battute. Niente giovani N’Toni. Ma nelle cose che si conoscono si ha un fare sapiente. Si cucina, si beve bene, si chiacchiera per sempre. In riva al mare, con il sole che scende, fino a notte fonda. C’è una poesia sottesa in tutte le situazioni, qualcosa che è pace, ma quasi quasi anche felicità.
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