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Come sono cambiate le nostre case (e cosa ci dicono su di noi)

Dall'opulenza dei villini alla sobrietà delle palazzine, dai caotici palazzi popolari alle villette di provincia. Come sono cambiate le nostre abitazioni negli ultimi 150 anni? E come cambieranno in futuro?

12 minuti di lettura

Se è vero che l’architettura è l’archeologia del futuro e che le nostre case e i nostri palazzi portano indelebili i segni dei mutamenti della cultura e della società, allora fare una passeggiata tra palazzi, villini e palazzine della nostra città può rivelarci più di ciò che crediamo. Negli ultimi 150 anni, infatti, la storia della società italiana è stata incisa nell’aspetto architettonico delle sue città, e oggi le cose non sono affatto cambiate.

I villini

In principio era il villino: assonanze aristocratiche, praticità borghese, spesso coronato da un torrino che rendeva tutto il gusto delle anime martoriate dei romanzi di formazione ottocenteschi. Protetto dalla strada da un piccolo giardino e una recinzione, spesso collocato subito fuori il centro della città, il villino veniva pensato con un gusto architettonico liberty molto fin de siècle, ed era la collocazione perfetta per la famigliola borghese, che conquistava finalmente il proprio posto nella società. Erano terminati i tempi dei palazzi nobiliari e dei villoni sfarzosi e rococò di campagna: il nuovo borghese cittadino aveva fatto l’unità d’Italia, era laico e liberale, credeva fermamente nell’etica del lavoro e si poteva permettere tutt’al più la villeggiatura con famiglia al seguito. È la breve ma gloriosa stagione della grande borghesia europea, del romanzo, della Mitteleuropa, della musica sinfonica, del Romanticismo e dell’Impressionismo. Nei villini troviamo eleganti ma sobrie sale da pranzo, con pianoforte e libreria, uno studio e un fumoir. Poi, meravigliose scale che portano alle camere dei signori. Ci sono poi le stanze della servitù, la soffitta e la biblioteca.

Quartiere Coppedè, Roma

È il definitivo sorpasso del borghese sull’aristocratico, che diventa poi evidente con l’emblematica lottizzazione dell’immenso parco di villa Ludovisi a Roma, quando, nel 1883, villa Ludovisi e il suo parco sconfinato cedono il posto a un intero rione di palazzine e all’elegante via Veneto. Altri quartieri di villette nascono in tutta la “Terza Roma”, da quelle più neorinascimentali dei quartieri Policlinico e Nomentano a quelle più stravaganti tipiche del quartiere Coppedè o dei Parioli fino al silenziosissimo ed elegantissimo Aventino. A Milano, cuore della borghesia italiana, un assaggio di queste atmosfere può essere ritrovato passeggiando per via XX Settembre o per il quadrilatero del Silenzio, incrociando Casa Galimberti, Villa Invernizzi e i pochi villini ancora non toccati da abbattimenti o stravolgimenti architettonici.

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La palazzina

Dal villino, passando per la breve fase del villino bifamiliare, si arriva alla palazzina. Si tratta dell’avvento della piccola borghesia, figlia delle prime grandi redistribuzioni della ricchezza del primo Novecento. Le palazzine, generalmente, si compongono di 9 famiglie: 5 piani, con due appartamenti per piano salvo l’attico, più piccolo, abitato da una sola persona e con ampia terrazza. Talvolta la palazzina si completa di un piccolo cortile interno e di un portierato: funzionalissima, sobria e modesta, anche se pur sempre elegante. La divisione sociale è netta: ai piani centrali le famigliole, nell’attico l’artista, al freddo d’inverno e al caldo d’estate. Gli appartamenti sono più piccoli dei villini e solo in alcuni casi ospitano la servitù. Sono affollati di impiegati del ministero, piccoli commercianti e professionisti con le loro famiglie allargate: moglie, figli, nonni materni e paterni e talvolta anche cognati scapoli. Per costruire la palazzina, spesso i condomini sono costretti a chiedere, tutti insieme, un finanziamento in banca e il mini-condominio diventa subito una grande famiglia piena di pettegolezzi e odi repressi. Lo stile, inizialmente elegante e raffinato, si sposta sempre di più, con il passare degli anni, dapprima verso il Razionalismo fascista e poi ancora verso forme di cemento tendenti sempre più al Brutalismo.

La celebre palazzina Nebbiosi, a Roma

Il palazzo

Ed è così che, progressivamente, ci si avvicina a un nuovo topos architettonico-culturale: il palazzo. Il palazzo, evoluzione della palazzina, è il simbolo dell’arrivo dei proletari in città: stormi di contadini, ferrovieri e operai incominciano a popolare le città italiane venendo da ogni dove. Tutte le grandi città aumentano la popolazione in maniera spropositata. Due esempi: Roma, che nel 1911 aveva 500mila abitanti e nel 1961 oltre 2 milioni, e Milano, che passa, nello stesso intervallo di tempo, da 600mila abitanti a oltre 1 milione e mezzo. Il boom demografico è al suo apice e le campagne si stanno a mano a mano spopolando: l’Italia finalmente produce (molto) e ha bisogno di manodopera. Ecco che nascono palazzi a 10 piani che ospitano centinaia di persone, case popolari enormi (come quella di Una giornata particolare) e speculazioni edilizie mai viste prima. Nasce, con i palazzi, la figura del palazzinaro, che fa di corruzione, cemento e manodopera malpagata gli ingredienti chiave di un rapido successo. Di fatto, le città cambiano volto. In poche stanze si concentrano le vite di intere famiglie, allargate o meno, e i quartieri si riempiono di utilitarie e immondizia. Sono gli anni dell’EUR prima e del quartiere Africano poi: palazzi strapieni d’inverno e metafisicamente deserti a Ferragosto, quando le famigliole si spostano in massa verso i luoghi di villeggiatura di massa: Rimini e Riccione per chi se lo può permettere, Ostia lido in giornata per tutti gli altri. È una società intensiva, spersonalizzata, che si riflette nei suoi palazzi, veri e propri non-luoghi, dove la densità abitativa è inversamente proporzionale al buon vicinato. Insomma, se il villino era l’emblema di una ricca e colta stagione della borghesia europea e la palazzina il punto d’arrivo di una piccola borghesia che sognava la vita tranquilla e la passeggiata domenicale in un viale alberato, il palazzo è l’esacerbazione del fantozziano produci-consuma-crepa, punto d’incontro tra piccolissima borghesia e proletariato monoreddito.

Quartiere Africano, Roma

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La villetta

Un corollario poi lo merita la villetta, ben diversa dal villino, perché tipica della provincia, specie settentrionale, e soprattutto figlia del boom economico. Nel giro di pochi anni, le immense campagne del Nord Italia diventano un densissimo agglomerato di capannoni e villette costruite attorno a piccoli paesini fatti di poco più d’una chiesa. Il modello è sempre lo stesso: giardino, con o senza orto e pergolato, tre piani, di cui uno seminterrato, e garage. È l’american dream dell’uomo del nord, nato spesso in grandi famiglie contadine e riuscito ad affermarsi con il suo modesto impiego, sogno che culmina con il “miracolo del Nord-Est” degli anni Novanta. La villetta è la risposta della provincia silenziosa e lavoratrice al caos cittadino: ordine e semplicità, comodità e modernità. La villetta diventa quindi un modo di vivere e assume più sfumature: c’è il villone del cumenda brianzolo con campo da tennis, piscina e servitù, e poi c’è la villetta dell’impiegato, più modesta ma con tutte le comodità. I piccoli centri di provincia si svuotano, la gente preferisce vivere nelle comode villette-dormitorio e lavorare in centro città, dove i prezzi degli immobili aumentano sempre più. I termini sono tanti e spesso sinonimici: città diffusa, urban sprawl, post-metropoli, città-territorio…

Le nostre case oggi

Oggi, la tendenza però sembra leggermente diversa. Sono sempre di più, infatti, le persone che scelgono di vivere da sole: single, divorziati, studenti, giovani lavoratori. Per Tecnocasa, il 68% di chi prende in affitto un appartamento (generalmente un bilocale, specie nelle grandi città) è solo, invertendo la tendenza del periodo pre-COVID. Il 30% di chi compra casa, poi, è single, numero che sale al 34% nelle grandi città. Si tratta, ancora una volta, del segno dei tempi: i nostri stili di vita sono più “liquidi” e soprattutto più veloci, e questo ha due conseguenze sul mercato immobiliare.  Anzitutto perdono di valore i grandi appartamenti da oltre 5 stanze, pensati a fine Ottocento per grandi famiglie con la servitù in casa e, all’inverso, crescono di valore gli immobili più piccoli e funzionali, specie se ristrutturati. Si tratta di un costo sempre più grande anche per gli stessi single: a New York, ad esempio, è stato calcolato che i single paghino circa 20mila dollari all’anno in più rispetto a chi convive con una o più persone. Insomma: oggi un monolocale è merce rara (e preziosa). Se il futuro delle nostre società siano il co-housing e la convivenza, solo le case del futuro potranno dircelo.

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