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Stella Rossa

Storie di calcio e guerra nei Balcani: cronache della Stella Rossa

11 minuti di lettura

Quella del 1991 non può certamente essere una finale di Coppa dei Campioni banale. Innanzitutto perché non si disputa in una grande capitale europea che possa vantare un’importante tradizione calcistica a livello continentale. Si gioca a casa nostra, ma non a Roma o Milano come è spesso accaduto, bensì a Bari, nel magnifico Stadio San Nicola progettato da Renzo Piano.

Qualunque sia la squadra che prevarrà sull’avversario, segnerà una storica prima volta: non soltanto per se stessa, ma anche per la propria nazione d’appartenenza. Nel capoluogo pugliese si affrontano i campioni francesi dell’Olympique Marseille che ai quarti di finale hanno eliminato il Milan di Arrigo Sacchi nella celebre partita passata alla storia a causa del blackout dei riflettori del Vélodrome. Dall’altra parte, a contendere la coppa per club più prestigiosa, c’è un gruppo di calciatori jugoslavi che è arrivato fin qui facendo piazza pulita dell’élite calcistica europea. Essi compongono la rosa della Crvena Zvezda, nota nella nostra lingua come Stella Rossa di Belgrado, la quale porta a casa questa edizione della Coppa dei Campioni segnando di fatto il primo storico trionfo del calcio jugoslavo. I calciatori marsigliesi, per vincere quella coppa, dovranno attendere ancora un paio d’anni e, forse, l’iniezione di qualche sostanza proibita nelle loro vene.

I calciatori della Stella Rossa con in mano la Coppa dei Campioni. www.wikipedia.org
I calciatori della Stella Rossa con in mano la Coppa dei Campioni.
www.wikipedia.org

Sempre nel 1991, nel mese di dicembre, la Stella Rossa mostra di non volersi fermare al successo europeo. A Tokyo sbaraglia i campioni sudamericani del Colo-Colo e rientra all’aeroporto di Belgrado con in mano la Coppa Intercontinentale. Ad attendere quella gloriosa squadra ci sono centinaia di tifosi, tra cui quelli più caldi. Come i Delije che circa due volte all’anno durante il Veciti Derbi (derby eterno) danno spettacolo insieme ai rivali Grobari, gli ultras del Patrizan, l’altra metà di Belgrado.

Spettacolo ovviamente pirotecnico fatto di colori, petardi, cori, tamburi ma spesso anche sangue e violenza. In quel gruppo di tifosi smanioso di vedere i propri idoli rientrare con lo scudo del nemico e le effigi della vittoria, svetta un volto certamente non anonimo. Il viso porta i lineamenti di chi nasce con la precisa vocazione di comandare e infatti è chiaramente il leader del manipolo di persone che gli sta attorno. Il suo nome è Zeljko Raznatovic, ma lì in mezzo tutti lo chiamano Arkan. Negli anni successivi, insieme alle sue Tigri, si macchierà di crimini che l’Europa intera non conosceva dai tempi della seconda guerra mondiale. Per esempio, a Srebrenica c’era anche lui a brindare insieme a Ratko Mladic, dopo aver gettato in fosse comuni circa ottomila corpi di bosniaci musulmani.

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Quando la Stella Rossa umilia 3-0 il Colo-Colo è abbastanza chiaro a chiunque che la situazione nei Balcani sia irrimediabilmente compromessa. La Slovenia si è già separata dal governo centrale, la Croazia sta facendo altrettanto. Non è più tempo della celebre filastrocca: «Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti e un Tito». Qualche mese dopo, nella primavera del 1992, in Bosnia scoppia ufficialmente un conflitto che macchia definitivamente la storia balcanica, ma anche la coscienza di noi europei, che proprio in quel periodo depositiamo l’agognato Trattato di Maastricht.

Il calcio però, in quanto fenomeno sociale e popolare, spesso riesce ad anticipare la storia. Quest’ultima, come scrive Eduardo Galeano, non considera l’importanza del calcio; ciò è un grave errore ovunque, ma in particolare proprio qui nei Balcani, dove il calcio e la storia, e in questo caso il calcio e la guerra, sono intrinsecamente connessi.

Il 13 maggio del 1990 al Maksimir di Zagabria va in scena un grande classico del calcio jugoslavo, i padroni di casa della Dinamo ospitano la sempiterna Stella Rossa. La partita non si riesce a giocare, perché allo stadio succede quello che probabilmente sarebbe potuto essere preventivabile, ma certamente non con queste dimensioni. All’interno del Maksimir si svolgono scene di violenta guerriglia in cui si oppongono due fazioni, da una parte i croati e dall’altra i serbi (non è complicato immaginare da chi siano guidati questi ultimi).

In realtà un ruolo di arbitro alla contesa dovrebbe essere recitato dalle forze dell’ordine presenti all’interno dello stadio, ma così non è. Tertium non datur, verrebbe da dire. Sì, perché i poliziotti, di fatto, non restano neutrali e si schierano a favore di Arkan e compagni, poiché, nonostante si giochi a Zagabria, la maggior parte degli agenti impegnati quel giorno proviene proprio da Belgrado e dintorni. In realtà le immagini che abbiamo a disposizione non sono molto chiare, ma chi ha vissuto sulla propria pelle quei momenti la pensa in questo modo. Come per esempio Zvonomir Boban che lascerà un segno indelebile nel Milan di fine anni ’90; quel giorno Zorro è un giovane calciatore della Dinamo e, osservando come gli agenti di polizia adoperino il manganello solamente nei confronti dei tifosi croati, reagisce tirando un calcio a un poliziotto, il quale in futuro si scoprirà essere un bosniaco musulmano. Il calcio volante di Boban viene assunto a simbolo del preludio del conflitto balcanico; le scene del Maksimir anticipano di un anno la dichiarazione di indipendenza di Slovenia e Croazia e di un paio di anni l’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia contemporanea.

Il calcio volante di Zvonomir Boban. www.sportvintage.it
Il calcio volante di Zvonomir Boban.
www.sportvintage.it

Era davvero impossibile sfuggire alla guerra? Il destino della Jugoslavia, un decennio dopo la morte di Tito, è quello di scomparire? Senza addentrarci in questioni storiche su cui si potrebbe dibattere a lungo, è doveroso ritornare a parlare di quella gloriosa Stella Rossa di inizio anni ’90. Infatti la rosa di calciatori rappresenta un insieme quasi perfetto di etnie balcaniche. La maggioranza è serba, come le conoscenze del calcio italiano Sinisa Mijhailovic e Vladimir Jugovic, ma ci sono anche croati (la stella Robert Prosinecki), montenegrini (Dejan Savicevic), macedoni (Darko Pancev e Ilija Najdoski) e un bosniaco (Refik Sabanadzovic).

Questi calciatori campioni d’Europa e del mondo per club compongono l’ossatura della grande Jugoslavia che nel novembre del 1991 batte 2-0 l’Austria al Prater di Vienna. È un match decisivo perché permette agli slavi di staccare il biglietto per i campionati europei che si andranno a disputare l’estate successiva in Svezia. La storia però, nel frattempo, fa il suo corso e questa squadra in Scandinavia non ci andrà mai. La partita contro l’Austria del 13 novembre di 25 anni fa transita dalle semplici cronache calcistiche a quelle storiche: infatti è  l’ultima recita della nazionale jugoslava. È il disfacimento di un paese. Al posto degli slavi agli europei ci vanno i danesi, ripescati all’ultimo momento.

Dato che il calcio spesso non è razionalmente spiegabile, quell’europeo lo vince proprio la Danimarca sconfiggendo in finale la Germania. Ma questa non è una nazionale tedesca qualsiasi: infatti dopo qualche decennio partecipa a una competizione calcistica non facendo più distinzione fra Est e Ovest, a conferma che il mondo sta definitivamente cambiando.

La nazionale di calcio jugoslava. fonte: foxsports.it
La nazionale di calcio jugoslava.
fonte: foxsports.it

In una intervista di qualche anno fa al regista bosniaco Danis Tanovic, vincitore del Premio Oscar del 2002 grazie a No man’s land, venne posta una domanda sul tema della difficile integrazione fra culture ed etnie differenti. In questo senso il regista porta con sé un’esperienza di vita straordinaria. Tanovic è nato a Zenica alla fine degli anni ’60, ma si è presto trasferito a Sarajevo dove, tra l’altro, vive ancora oggi.  Il discorso del regista è molto semplice: pensate che l’integrazione rappresenti un’utopia? Questo perché non avete vissuto la Sarajevo che ho conosciuto io, quella prima dell’assedio e del conflitto. La città infatti era uno straordinario mélange  di etnie, religioni, culture, popoli e lingue differenti. Nel centro storico a poche centinaia di metri ci sono due chiese (una cattolica e una protestante), una moschea e una sinagoga. Eppure quella Sarajevo ha vissuto svariati decenni in un clima di armonia, tolleranza e pace. Prima che la guerra, di fatto, si portasse via tutto, lasciando soltanto un ricordo sbiadito.

Come ha fatto con la Stella Rossa.

Come ha fatto con la Jugoslavia.

Giacomo Van Westerhout

Classe 1992, possiedo una laurea magistrale in ambito umanistico. Maniaco di qualsiasi cosa graviti intorno allo sport e al calcio in particolare, nonostante da sportivo praticante abbia ottenuto sempre pessimi risultati. Ho un debole per i liquori all'anice mediterranei, passione che forse può fornire una spiegazione alle mie orribili prestazioni sportive.

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