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Storie di ordinari migranti in «Londinesi Solitari» di Sam Selvon

10 minuti di lettura

Nessuno può parlare del fenomeno dell’immigrazione con sentimento e attenzione così come lo fanno i migranti stessi. Tra gli autori che si sono occupati di questo tipo di letteratura, ottenendo un discreto successo, abbiamo Samuel Selvon. Nato nel 1923 a Trinidad, isola caraibica, come per molti degli abitanti delle ex-colonie inglesi Selvon ha origini miste: in parte indiano, in parte scozzese, cresce e viene educato oltreoceano. Dopo aver lavorato come giornalista e aver coltivato la passione per la scrittura, negli anni Cinquanta si trasferisce a Londra, dove lavora per la BBC e, successivamente, in Canada.

selvon copertina migranti

Il grande flusso migratorio che vede gli abitanti dei Caraibi – i West Indians – spostarsi verso l’Inghilterra è il tema centrale del suo romanzo più celebre, The Lonely Londoners (1956), nella versione italiana Londinesi solitari. Quando nel 1948 la nave Windrush sbarca a Tilbury, portando più di 200 giamaicani nella loro nuova terra, nessuno prevede l’inizio di un’ondata migratoria che continuerà senza sosta nei decenni successivi. L’Inghilterra è piegata dalla fine della seconda guerra mondiale, le maggiori città sono distrutte e c’è bisogno di forza di volontà e manodopera per ricostruire un paese vincitore ma stremato. Il popolo caraibico, fuggendo da fame e disoccupazione, ha voglia di vivere dignitosamente e integrarsi nella madrepatria. Molte quindi le condizioni favorevoli: il bisogno immediato di lavoratori, la conoscenza della lingua inglese in quanto parte delle colonie e la voglia di ricominciare. I giamaicani trovano così lavoro in poche settimane, tanto da convincere anche amici e parenti ad attraversare l’oceano per ricominciare a vivere. Lo stesso anno, il Nationality Act dichiara che tutti gli abitanti delle colonie sono ufficialmente cittadini inglesi e hanno quindi pari diritti.

Gli inglesi della Gran Bretagna inizialmente accolgono con entusiasmo i compagni caraibici e accettano il loro aiuto per rimettere in piedi le città, ma durante gli anni Cinquanta le tensioni razziali si fanno sempre più forti e la classe borghese inizia a temere che i nuovi arrivati possano rubare il lavoro ai “veri” inglesi. Come sempre, il razzismo si basa sostanzialmente sulla paura: molti abitanti dell’Inghilterra non avevano mai visto in vita loro una persona di colore, che doveva apparire ai loro occhi come qualcosa di straordinario e per certi versi temibile. Le nuove problematiche fanno sì che il Nationality Act sia annullato, lasciando così i coloni senza tutela in un paese ormai ricostruito che non li accetta più.

Questa è solo una presentazione del complesso mondo descritto in Londinesi Solitari, un romanzo che ci mostra una Londra degli anni Cinquanta dal punto di vista dell’emarginato, del diverso, dell’immigrato. Il personaggio centrale è Moses, uno dei primi arrivati nella grande città che si rende disponibile ad aiutare, seppur con i suoi modi bruschi e schietti, i compagni da poco sbarcati in Inghilterra. Dove alloggiare? Dove cercare lavoro? Come rapportarsi con “i bianchi”? Come sopportare il clima rigido del Regno Unito? Queste sono le tante domande, semplici ma essenziali, di chi con tanti sogni e forza di volontà lascia la propria patria per una vita migliore. Moses è poi il profeta che guida il popolo ebraico verso la terra promessa: il nome non è casuale, ma risulta in questo caso ironico. Non si tratta del solo riferimento letterario presente in Londinesi Solitari, uno dei nuovi arrivati che si affida a Moses si chiama infatti Sir Galahad, chiaro rimando al ciclo arturiano e a uno dei suoi cavalieri più puri, ingenui e innocenti. Tra gli altri personaggi abbiamo Tolroy, che vuole tornare a casa per risentire la sensazione della sabbia sotto i piedi; Big City, che fatica a pronunciare le parole nel modo corretto; Lewis, che picchia la moglie perché fatica a considerarla un essere indipendente; e molti altri – prevalentemente uomini – coi loro pregi e difetti.

A West Indian Immigrant In 1960s Britain: A Real Lonely Londoner | History  Extra

Sono molte le speranze dei West Indians, spesso esagerate: il pensiero comune vuole che Londra sia nel loro immaginario «lastricata d’oro», una sorta di El Dorado europeo, mentre la situazione non è in realtà completamente favorevole per i nuovi arrivati. Alcuni sono costretti a dare la caccia ai piccioni per mangiare qualcosa, altri preferiscono imbucarsi alla feste per sentirsi parte di una società tanto diversa: nulla è facile per il popolo caraibico, che è costretto a superare rocamboleschi ostacoli per sopravvivere, creando così episodi tragici e divertenti al tempo stesso. Il mito viene quindi distrutto in questo romanzo, che mostra le effettive difficoltà affrontate dai migranti per stabilirsi tra una popolazione solo inizialmente aperta.

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Il libro non segue un singolo personaggio, ma osserva le vite di molti migranti provenienti dalle colonie inglesi. Si tratta quindi di un romanzo corale, che racconta la storia di un’intera generazione di migranti costretta a lasciare tutto per sopravvivere in un paese che, pur essendo la madrepatria, risulta sotto ogni aspetto straniero. Selvon non cerca di osannare le imprese dei suoi compatrioti, ma si limita a descrivere scene di vita quotidiana in un particolare contesto, mostrando sia i lati postivi che quelli negativi della situazione. Non tutti i West Indians sono personaggi positivi, tanto che possiamo leggere di episodi di razzismo all’interno della comunità nera stessa. I nuovi londinesi sono a tutti gli effetti un grande gruppo, ma, come suggerisce il titolo, sono spesso soli in un nuovo mondo.

L’elemento più caratterizzante del romanzo è lo stile dello scrittore, che è però molto difficile da tradurre in italiano. La lingua utilizzata è infatti molto particolare: non si tratta di un inglese standard, ma del broken english parlato dagli immigrati caraibici, qui ricostruito in modo artificiale per riprodurre la vera parlata dei protagonisti. Abbiamo quindi una grammatica spesso scorretta o semplificata, molti termini legati alle lingue native dei Caraibi, oltre a una serie di parole che creano uno slang tutto nuovo. Questo voler ricreare la vera parlata dei migranti inglesi ci immerge ulteriormente in un mondo che acquista sempre più veridicità agli occhi di chi legge. A questa scelta si aggiungono elementi molto realistici come i nomi delle strade e i numeri dei bus, come se anche il lettore camminasse con Moses e gli altri per le vie di Londra.

La capitale inglese è del resto uno dei protagonisti principali del romanzo, l’elemento centrale che accomuna le vicende più svariate dei migranti. Grigia e malinconica, per alcuni Londra è la speranza di una vita migliore, mentre per altri è un luogo troppo diverso per diventare a tutti gli effetti “casa”.

Londinesi Solitari non è soltanto un romanzo piacevole per i suoi toni schietti e vivaci, ma è anche fondamentale per riflettere su temi ancora oggi attuali. Infatti, leggere un’opera dal punto di vista del colonizzato, e non del colonizzatore, ci catapulta in un mondo completamente nuovo e ci fa empatizzare con personaggi diversi – ma in fondo non così tanto – da noi. Oggi, dopo più di sessant’anni, è rincuorante constatare che, generalmente, queste migrazioni hanno semplicemente arricchito la cultura, l’arte, la letteratura, la cucina e la lingua inglese.

 


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