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«Supernova», il nuovo romanzo di Isabella Santacroce

3 minuti di lettura

Supernova è l’undicesimo romanzo di Isabella Santacroce, edito Mondadori – un ritorno che l’ha vista passare da Fazi, Rizzoli e Bompiani.

Le anticipazioni parlavano di prostituzione minorile: questo sarebbe dovuto essere il tema trattato, questo ci si aspettava e questo non è stato. La prostituzione non è altro che un pretesto per la scrittrice – un pretesto consistente, sì – con cui aggrapparsi all’attuale, forse per la prima volta, perché da Fluo a Luminal, da V.M.18 ad Amorino, nonostante tutto i suoi romanzi son sempre stati fuori dal tempo, proiettati in mondi onirici ogni volta sempre diversi, ma accomunati da una cosa, l’infanzia.

Però lo sapevo. Lo avevo scoperto guardando le altre bambine che a volte incrociavo: loro avevano il rosa sopra la pelle. Il mio colore invece era l’azzurro. Un azzurro sfumato, incredibile. E il primo giorno di scuola, accompagnata da mia zia che mi teneva per mano, io con i capelli biondi raccolti in due trecce, all’improvviso mi sono sentita perduta. Mi sono sentita come forse si è sentita mia madre, dopo il treno, arrivata a Milano. Non c’erano mattoni gialli, non campi di papaveri dove svenivi dal sonno, non la Città di Smeraldo, né fiumi né zattere. Non streghe, mongolfiere, cicogne, non c’era più niente, c’era la vita di tutti, e la poesia impiccata al soffitto

La protagonista Dorothy, dal paese di Oz, ci porta per mano nel museo delle cere dei dolori, suoi e altrui: una prostituta e madre-bambina incapace di uscire dalle fiabe, una zia di una dolcezza di cartone che forse non aspettava altro che di esser trascinata in quel racconto mai conosciuto prima, delle treccine bionde (angelicata innocenza) che fino ai sedici anni non hanno avuto modo di indossare un costume da bagno.
La negazione della gioia. La sensibilità di un’umana che ha sembianze di un cerbiatto e si sfoga nell’amore delicato per Eva, la sua compagna di scuola che presenzia per tutta la durata del romanzo sotto forma di piuma appesa al collo, anche durante i bagni di fragole.

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Il passaggio da Impromptu di Chopin a Cherry Blossom Girl degli Air, le luci di Luminal che ritornano, le prostitute che ogni tanto sono anche mamme ma poi si siedono per terra, stringono tra le braccia la casetta di stoffa, ripetendo così non vola, così non vola, e perdono tutto.

L’incertezza del proprio sesso (Tadzio o Dorothy? Si vada a pagina 158, ma inventate prima un libretto di istruzioni), dell’amore che vince sull’odio in un quartiere Barona mai reso così bene, l’assenza di una casa ma la forza dell’amicizia, seppur titubante, che si creda o no in quest’ultima, dice bene Massimiliano Parente, scrittore e dal 2009 anche giornalista: «[Isabella Santacroce] non si rivolge agli adulti, si rivolge ai bambini traditi dal loro non poter essere rimasti tali».

L’adolescenza – che non è altro che una retta unita ad un’altra retta – di Divna, poi i Dorothy e più tardi anche di Thomas sembra «la fine di una festa, un salone con gli addobbi crollati», una confusione tra strap-on in lattice nero e balconi avvolti dai Placebo; non la scuola, non l’ansia dei compiti in classe: «Io vedo cose che nessun altro vede», diceva Amedeo Modigliani, e sono queste ‘cose’ che la più grande scrittrice italiana contemporanea ci affetta davanti. Le ‘cose’ siamo noi e noi siamo carne.
Questo fa di Isabella Santacroce una scrittrice per pochi, una sopravvissuta trasformata in lacrima destinata a vivere nei sogni degli altri.

Isabella santacroce

Ho telefonato a mia madre. Avevo bisogno di lei, di una madre. Mi tremava la voce.

Volevo dirle mamma mi prostituisco, e anche se sembro un maschio, mi pagano bene. Volevo dirle mamma, ho bisogno di parlarti, ho tante cose da dirti, tu di me non sai niente, e non sai che oggi vorrei morire.
Volevo, come sempre, da sempre, volevo dirle, e non potevo.
Le ho detto mamma, appena ritorni, giochiamo come quando ero piccola, e la nostra vita sembrava una fiaba. Giochiamo ancora, però cambiamo la storia di Dorothy, e non ci sarà più un uragano, e la casetta non vola.
Io le parlavo, lei invece no, non parlava, però la sentivo, piangeva.


Isabella Santacroce, lo dice il nome stesso, è portatrice di un macigno che, a giudicare dal numero di pollici sulla pagina Facebook, viene condiviso o forse solamente contemplato. Ma è già qualcosa (lo è davvero?, bisognerebbe chiederle) e da questo viaggio doloroso si esce miracolosamente forti, si sceglie di avere scelta e la scelta cade sul verbo “nuotare”. Restano tre minorenni in una piscina e finalmente l’alternativa del puro e dell’amore.

Pensa che bello, noi così liberi, non aver più paura di niente, nemmeno di vivere.
Ah, e la piscina è sulla Tour Eiffel. Provare per credere.

Quando smetterai di amarmi, ti strangolo.

Miriam Di Veroli

 


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Miriam Di Veroli

Classe 1996, studia Lettere moderne all'Università degli Studi di Milano.

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