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«Mi dor le dor/ man jīlin ilā jaylin». Sull’insostenibile tempo sospeso fra Esilio e Redenzione

Articolo di Martina Perotta, dalla newsletter n. 35 - gennaio 2024

14 minuti di lettura

«Natzel et ha yom, achshiav!» [lett. sfrutta il giorno, adesso!] ha detto Itay un torrido pomeriggio di agosto per convincere chi scrive a sollevare la testa dai libri e prendere un succo di melograno allo Shuk Ha-Carmel, nel centro di Haifa. «Nireh be karov!» [ci vediamo presto!] ha detto Mercedes, che nel dopoguerra è partita dall’Argentina per un’aliyah in Galilea, trascorrendo la sua adolescenza in un kibbutz socialista, esperienza che l’ha resa un’anziana signora gelosa degli orecchini colorati. «Sinakūna sawiyyan» [saremo insieme, saremo ‘co-esistenti’, o ‘compresenti’] ha detto Nouha, che studia archeologia e storia dell’arte a Nazareth, la sua città natale, passando di fronte al muro che ritrae(va) la giornalista palestinese Shireen Abu Alekh.

Sono le istantanee di un eterno presente, quello che incrocia le vite di tutti in Israele/Palestina, dove la “presenza” di ciascuno, in senso diacronico e sincronico, si misura nella voracità con cui viene vissuto ogni momento di vita quotidiana, dal caffè turco accompagnato con lo knafeh filante che non andrebbe mangiato alla mattina al falafel divorato di corsa mentre il bus sfreccia per la strada, lasciando i passeggeri il più delle volte a piedi. In Israele/Palestina, il tempo è un concetto strano, che presto ci si accorge essere troppo spesso declinato al presente, un “essere ora” così paradossale da risultare indicibile sia nella lingua araba, sia in quella ebraica (il verbo essere è indeclinabile al presente, le frasi sono nominali). Un tempo che traspare nella biografia personale di chi lo attraversa come un assoluto, bizzarra mistura di storia e mitografia, proprio come lo aveva descritto Bashevis Singer, una dimensione in cui se è irrealistico poter risalire alla complessità delle concause che hanno generato l’oggi, è però chiaro a tutti che l’unica sua possibile genealogia è quella che ci costringe a confrontare chi è venuto prima, quei «morti [che] non vanno da nessuna parte [e che] sono tutti qui» perché «ogni uomo è un cimitero in cui giacciono i suoi antenati, i padri e le madri, le mogli e figli. Tutti sono qui allo stesso tempo».

Dal 7 ottobre scorso, è diventato un po’ più comprensibile quello strano sintonizzarsi in un tempo a mezz’aria, lì dove si ha costantemente la sensazione che sia ancora possibile recuperare tutto o, al contrario, perdere in un attimo ogni cosa. È un tempo da sempre sospeso fra Esilio (l’estraniazione totale e la negazione di sé) e Redenzione (il ritorno, la restituzione a se stessi), due categorie che incrociano in momenti alterni due popoli tanto vicini e simili, quanto lontani – la cui longevità si misura nella cadenza generazionale e costante con cui altre sedie rimangono vuote alla tavola imbandita, non sempre in attesa dell’arrivo del profeta Elia o del prossimo Messia. Quando Ariel ha chiamato per dire che era stato reclutato come riservista nel Golan, la sinagoga era ancora addobbata a festa per Simchat Torah; si festeggiava sotto la sukkah

Redazione

Frammenti Rivista nasce nel 2017 come prodotto dell'associazione culturale "Il fascino degli intellettuali” con il proposito di ricucire i frammenti in cui è scissa la società d'oggi, priva di certezze e punti di riferimento. Quello di Frammenti Rivista è uno sguardo personale su un orizzonte comune, che vede nella cultura lo strumento privilegiato di emancipazione politica, sociale e intellettuale, tanto collettiva quanto individuale, nel tentativo di costruire un puzzle coerente del mondo attraverso una riflessione culturale che è fondamentalmente critica.

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