Nel 1492 Cristoforo Colombo convince i re cattolici di Spagna, Ferdinando e Isabella, a finanziare la sua impresa: arrivare in Cina, incontrare il Gran Khan e convertirlo al Cristianesimo.Questo è il pretesto ufficiale, al di sotto del quale si nasconde quello vero: la Cina – nota all’epoca come Catai – è la patria della seta, delle perle e della porcellana, tesori orfani in trepidante attesa che un conquistador li faccia suoi. Così, il 3 agosto del 1492, Colombo parte da Palos con una flotta di tre navi – la Niña, la Pinta e la Santa María – e dopo quasi tre mesi di viaggio, con un equipaggio prossimo all’ammutinamento, sbarca sull’isola da lui ribattezzata San Salvador, pronto a incontrare il Gran Khan.
Ma la navigazione richiede precisione: un calcolo sbagliato può cambiare la Storia. Ed è ciò che accade a Colombo, il quale non sa di aver commesso un piccolo, ma rilevante errore nell’utilizzo della misura fornita dall’astronomo arabo al-Farghânî – effettivamente vicina alla corretta circonferenza della Terra – che il navigatore traduce in miglia italiane, inferiori di un terzo alle miglia arabe. Colombo non immagina l’esistenza dell’America tra l’Asia e l’Europa e quando scende a terra – convinto di aver raggiunto le Indie Orientali e ignorando di trovarsi alle Bahamas – appella gli abitanti di quel luogo come indiani. È poi grazie ad Amerigo Vespucci che gli europei si rendono conto di aver scoperto un nuovo continente, ma ormai il termine indiano si è diffuso e radicato. Arrivato sull’isola viene accolto dai membri della tribù locale con perle, frutta e delle misteriose foglie secche. Tuttavia, Colombo non sa di avere tra le mani delle foglie di tabacco e le getta in mare. Per citare lo scrittore Iain Gately, questo è stato il primo bacio tra l’Europa e il tabacco, l’inizio di una lunghissima storia d’amore e odio.
La storia del tabacco appartiene a quella branca di studi nota come Storia culturale. La caratteristica fondamentale di questa disciplina è l’interesse per i simboli e la loro interpretazione. Un’affermazione forse vaga, ma in linea con il carattere della storia culturale che – di per sé – è di difficile definizione. In generale, si potrebbe dire che si tratta della storia di ciò che tradizionalmente sfugge. Infatti, mentre la storia tradizionale si concentra sui grandi e indimenticabili eventi storico-politici, quella culturale si ritaglia il suo angolino nella quotidianità. Leggendo il saggio del già citato Iain Gately – Diva Nicotina. Come il tabacco ha sedotto il mondo – l’impressione è che il tabacco sia stato il compagno di vita dell’umanità. Ma bisogna procedere con ordine per capire l’importanza di questa pianta nella storia dell’uomo.
Prima dell’arrivo di Colombo nel Continente americano, il tabacco è sconosciuto in Europa e consumato esclusivamente nel Nuovo Mondo. La sua prima coltivazione avviene nelle Ande tra il 5000 e il 3000 a.C. Non si conosce con esattezza come sia avvenuta la scoperta della pianta, ma gli antropologi immaginano quella che potrebbe essere un’ipotesi piuttosto verosimile: un uomo corre attraverso una foresta in fiamme, inciampa, cade su un cespuglio di Nicotiana rustica, inspira il fumo, prova un misterioso sollievo e, da quel momento, non può più farne a meno. Gli indiani americani elaborano mille modi per consumarlo. Alcune di queste abitudini sono rimaste intatte nei secoli, come quella di fumarlo o masticarlo. Altre invece sono state abbandonate. Una modalità di consumo molto in voga tra gli sciamani è di bere il tabacco sotto forma di infuso realizzato immergendo le foglie nell’acqua. A dare quel tocco magico è, in certi casi, l’aggiunta di allucinogeni o una goccia di fluidi raccolto dal corpo di uno sciamano morto. Non c’è da stupirsi: per gli sciamani lo scopo è quello di toccare da vicino la morte e sconfiggerla. Solo in questo modo possono aiutare gli altri a sopravvivere. Se da un lato può essere difficile comprendere perché alcuni indiani preferiscano consumare la pianta per via anale, dall’altro, di fronte all’immagine di un clistere di tabacco, appare più accettabile – quasi geniale – l’idea di un bastoncino di tabacco da leccare o strofinare sulle gengive. Anche i Maya sono abituali consumatori: il fumo sprigionato è un modo per comunicare con le loro divinità. O meglio, un’alternativa perché la loro concezione del mondo – creato dal sangue degli dei – li obbliga per gratitudine a restituire quel sangue, versandolo a loro volta. Compiono dunque numerosi sacrifici – come strappare letteralmente il cuore ancora pulsante dalle loro vittime – o si infliggono sofferenze inimmaginabili, come raschiare la lingua o il pene con corde ricoperte di spine. Il sangue, versato su della stoffa e bruciato, si libera nell’aria sotto forma di fumo per giungere al cospetto degli dei. Ed è qui che entra in gioco il tabacco: in mancanza di sacrifici, i Maya si mettono in contatto con le divinità semplicemente tramite il fumo della pianta.
Con la conquista dell’America, quello che accade a queste popolazioni è l’inizio della loro fine. I conquistadores sono noti per un’immotivata crudeltà e sono disposti a tutto pur di soddisfare la loro avidità. Molti di loro rifiutano di vedere negli indios qualcosa di simile a un essere umano o, addirittura, a un animale. È questo il caso dello storico Gonzalo Fernández de Oviedo che li inserisce nella categoria del materiale da costruzione. Il filosofo bulgaro Cvetan Todorov nel suo libro La Conquista dell’America. Il problema dell’altro racconta che Oviedo consigliava di stare attenti a colpirli con la spada perché i loro crani erano talmente duri da essere in grado di romperla.
Strano a dirsi, il tabacco non conquista immediatamente l’Europa, che è più attenta all’oro e alle altre ricchezze americane, ma anche spaventata dall’utilizzo del tabacco nei riti apparentemente satanici degli indigeni. A spostare l’attenzione verso la foglia è la scoperta delle sue proprietà curative. Come il medico di Siviglia Nicolàs Monardes scrive nel suo opuscolo Historia medicinal il tabacco può curare qualunque cosa: dall’alito cattivo al cancro, passando per i morsi di serpente e i calcoli renali. Anche in Italia si discute del tabacco in letteratura e medicina. Il medico Giovanni Piccino sostiene che sia un perfetto antidoto agli «insani furori del vino» ed elogia le sue qualità anti erotiche. Non è il solo: anche il monaco Benedetto Stella consiglia il suo consumo a «preti, monaci e altri religiosi che devono e desiderano menar vita casta».
A conquistare il titolo di più grande mercato di tabacco in Europa è l’Inghilterra, dove fumare, nel XIX secolo, arriva a essere una caratteristica nazionale e la scelta della pipa giusta diventa una questione socialmente rilevante. Mentre la classe operaia adotta la pipa di argilla, diventando sinonimo di povertà; l’aristocrazia opta per il sigaro. Ma con la comparsa della classe media diventa necessaria la fabbricazione di un loro esclusivo accessorio per fumare: nasce la pipa in Meerschaum, termine tedesco che significa schiuma di mare. Si tratta di un silicato idrato di magnesio in grado di cambiare colore con l’uso. Inizialmente di colore bianco, con l’andare del tempo diventa marrone. Questa interessante proprietà determina il successo di questa pipa, poiché il colore è indicativo dell’esperienza del fumatore. Ma come avviene il passaggio dalla pipa alla sigaretta?
All’inizio della loro carriera le sigarette non godono di una buona reputazione, soprattutto in Inghilterra dove vengono associate alla Francia – comportatasi pietosamente nella guerra franco-prussiana del 1870-71 – e sono considerate un’imitazione poco virile del più mascolino sigaro. Ma sono indubbiamente comode. La praticità ha la meglio sulla cattiva reputazione, e il consumo di sigaretta cresce da 40 milioni nel 1875 a 500 milioni nel 1880, solamente negli Stati Uniti. A intuire il potenziale delle sigarette è Buck Duke, proprietario di un’azienda di tabacco in Virginia, il quale è il primo a investire nella geniale creazione di James Albert Bonsack: una macchina in grado di fabbricare fino a 212 sigarette al minuto. Ma non solo: è anche il primo a credere nel potere della pubblicità, arrivando a spendervi ottocento mila dollari, pari a venticinque milioni di dollari attuali.
Tuttavia, Europa e America sono spinte al consumo compulsivo del tabacco da una motivazione più profonda e al contempo incomprensibile per quegli anni: la dipendenza. Bisogna attendere la fine dell’epoca vittoriana per scoprire che la nicotina, così come gli altri alcaloidi, può creare un’assuefazione, che, fino all’entrata in scena di Sigmund Freud nel 1905, viene ritenuta incurabile. Freud sostiene che i comportamenti compulsivi, come il fumo, hanno origine da una forza interiore chiamata libido. In Tre saggi sulla teoria sessuale si legge che i ragazzi che conservano «una intensificazione costituzionale d’importanza erogena per la regione labiale» hanno, da adulti, «una forte propensione a fumare» poiché il tabacco è per loro «come una protezione e come una arma nelle battaglie della vita».
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La via della guarigione è quella della psicanalisi e il complesso da risolvere è quello di Edipo. Durante le sedute, Freud intuisce che i suoi pazienti manifestano problemi comportamentali a causa di abusi sessuali risalenti alla gioventù, che sono stati rimossi da un meccanismo di difesa inconscio. A fronte del fatto che molti dei suoi pazienti non hanno mai subito effettivamente degli abusi, Freud ipotizza che questi non devono essere necessariamente accaduti, ma possono anche essere stati solo sognati. La scoperta è di notevole importanza perché cambia l’idea che l’opinione comune ha delle persone dipendenti, le quali da esseri deboli e privi di forza di volontà diventano vittime da compatire.
Ma i pazienti di Freud non sono i soli che devono essere compatiti. Facendo un passo in avanti di alcuni anni e approdando negli anni Trenta e Quaranta del Novecento, ci ritroviamo alle soglie della Seconda guerra mondiale dove, insieme al loro fucile, la sigaretta diventa la migliora amica dei soldati. Per le truppe dei Paesi in guerra il tabacco è una garanzia. Oltre al cibo, sette sigarette sono incluse nella razione che i soldati inglesi e del Commonwealth ricevono giornalmente. A queste sigarette si aggiungono quelle che è possibile acquistare presso la Naafi – Navy, Army and Air Force Institutes – e quelle che vengono inviate dai parenti. I soldati tedeschi ne ricevono sei al giorno e anche loro possono contare sull’acquisto di una scorta extra, ma Hitler – fortemente contrario al fumo (non allo sterminio) – porta la tassazione al novanta per cento del prezzo di vendita al dettaglio. All’esercito russo vengono assicurati cento grammi di vodka al giorno e una manciata di tabacco greggio, che sono soliti arrotolare nella carta di giornale poiché ritengono che questa ne migliori il sapore. Ma sono i marines americani i più fortunati: tra i cinque e i sette pacchetti di sigarette alla settimana. La garanzia di tabacco da parte dei Paesi coinvolti nel conflitto ha una sua spiegazione: i soldati sono macchine da guerra, il cui unico obiettivo è combattere per la propria patria e vincere. Tutto ciò che aiuta questi giovani ragazzi a raggiungere lo scopo è consentito. E se i soldati hanno bisogno di fumare per vincere, la sigaretta è la benvenuta in guerra.
Terminato il conflitto, il numero di fumatori raggiunge cifre sbalorditive. Per fare un solo esempio, nell’Inghilterra degli anni Cinquanta la percentuale di fumatori si aggira intorno all’ottanta per cento. Possiamo con sicurezza affermare che la relazione tra uomo e tabacco si sta preparando ad assumere la portata globale che ha oggi. Una relazione ancestrale, la cui esistenza nasce ancora prima della sua scoperta, come una coppia di innamorati destinata a incontrarsi. L’unione tra uomo e tabacco è spirituale, malsana e indubbiamente pericolosa, ma spesso irrinunciabile. E noi fumiamo perché ci sono regole di comportamento non scritte che ci inducono a farlo: prima e dopo i pasti, per strada, in macchina, nell’attesa di qualcuno, dopo un caffè. Nemmeno il rischio di cancro può distogliere l’uomo dal fumare quando è in ritardo, nervoso, desideroso di spiccare o apparire disinvolto. Una consolazione che ci aiuta ad accettare quella parte di noi che in fondo non voleva intraprendere quella relazione, ma che ormai c’è dentro fino al collo.
Anna Di Raimondo
Immagine in copertina: Humphrey Bogart. Fonte: www.cinematographe.it