Per molti ascoltare alla radio la notizia delle dimissioni di Alexis Tsipras ha avuto l’effetto emotivo di una tragedia: mano tra i capelli, sguardo basso, e le domande «perché?» e «cosa succederà adesso?» vorticanti nella testa. Le peripezie della Grecia, di Syriza, Alexis Tsipras, Yanis Varoufakis e compagnia, e le loro conseguenze, sono legate a filo doppio non solo al nostro contesto, ma al nostro destino (al destino di noi che pensiamo che il destino non esista).
Sinteticamente, dopo due giorni di pacata sedimentazione, proviamo a dare una risposta alle due domande. Innanzitutto il governo di Alexis Tsipras cominciava a non avere i numeri, o almeno la serenità, per governare. Dunque, forte di una fiducia popolare ancora piuttosto alta, giocando d’anticipo sui partiti d’opposizione e sull’opposizione del partito, il premier si dimette e lancia le elezioni per la prima data utile passati i tempi tecnici; con il proposito di ri-vincere le elezioni con una maggioranza più larga che gli permetta di governare senza sgambetti interni e di conseguenza senza trattative e ricatti, a destra e a manca.
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Ma a livello simbolico e più squisitamente machiavellico la questione si tinge di molte sfumature interessanti. Prima tra tutte la più emblematica in assoluto, il messaggio di quindici minuti con il quale Tsipras ha annunciato le sue dimissioni è stato trasmesso dalla televisione pubblica ERT, che senza il suo governo non ci sarebbe stata. Scelta casuale, imposta o ragionata? Sicuramente tutto emerge dalle parole del premier tranne che una resa con la consegna delle armi al nemico, interno o esterno che sia, anzi Alexis si tiene in tasca le cartucce e pur ammettendo, molto onestamente, il fallimento dei propositi di partenza, non lesina sui risultati (tra i quali appunto la riapertura dell’ERT), illuminando la situazione prima e dopo la sua vittoria, prima e dopo il referendum, cose che chi è attento non dimentica di certo, ma è sempre bene ricordare.
Tuttavia pur sempre di un fallimento inequivocabile si tratta e lo scotto più oneroso, probabilmente, lo si è pagato in tracotanza. Tsipras, che ha condito molto saggiamente il suo comunicato alla nazione, lo sa e lo ammette:
Non siamo riusciti ad ottenere l’accordo che speravamo, in questa battaglia abbiamo fatto dei compromessi. Ma abbiamo concluso un accordo che era il migliore possibile, dati i rapporti di forza fortemente negativi in Europa e l’eredità della stretta sudditanza del nostro paese alle condizioni dei “memorandum”. Siamo costretti a rispettare questo accordo ma nello stesso tempo ci batteremo per ridurre al minimo le sue conseguenze negative, guidati dagli interessi della maggioranza del nostro popolo, con l’obiettivo di riconquistare al più presto la nostra sovranità davanti ai creditori*.
Sul piano della lotta il carro d’assalto targato Syriza non ha fallito solo contro le schiere di falchi e conservatori europei, ma anche nel tentativo, evidenziato da Tsipras stesso a metà luglio, di dare forma a quell’idea di «sinistra sociale» tanto diffusa anche all’interno del paese, alla quale Syriza non solo non è riuscita ad adattarsi ma che, con le sue lotte intestine, rischiava anche di disperdere. È ancora quindi dal punto di vista delle anticipazioni, strategiche e di principio, che possiamo leggere le dimissioni dell’altro ieri: lo stesso Tsipras aveva rilasciato a metà luglio alla radio di partito, Sto Kokkino, un’intervista amara, nella quale senza tanti giri di parole diceva ben chiaro che «Syriza non è un partito di governo, quel modello pluralista e polifonico [con il quale è nato] è fallito; Syriza non si è mai trasformato in un partito unitario e la responsabilità è solo mia».
Chiaro naturalmente che non fosse solo sua, di fatti l’appena fuoriuscito ex-ministro dell’energia Panagiotis Lafazanis ha certamente avuto un ruolo altrettanto pesante nell’incapacità del partito di venire prima di tutto a capo di se stesso, condizione imprescindibile per venire a capo del mondo. A lui e alla minoranza interna a metà luglio Tsipras aveva lanciato quindi un messaggio chiaro in vista del congresso, affermando «di fronte a una lotta barbara con l’esterno non possiamo permetterci una lotta interna», ma di fronte alla determinazione di quelli che «appellandosi alla coerenza ideologica, avanzando l’opinione che la Grecia ha sì bisogno di un prestito, vale a dire di un “memorandum” ma con la dracma, sono giunti all’estrema incoerenza di trasformare in minoranza parlamentare la maggioranza che il popolo aveva dato al primo governo di Sinistra», in barba ai gruppi dirigenti e allo stesso congresso ha tagliato corto in via delle elezioni; seconda mossa d’anticipo anche se un po’ bonapartista, poiché in caso di elezioni anticipate i candidati non vengono scelti con le preferenze ma presentati dai partiti. Quindi ai dissidenti l’ardua scelta, compiuta invero piuttosto repentinamente, di uscire dal partito e tentare il tutto per tutto alle elezioni, oppure con ogni probabilità non venire ricandidati.
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Ma ancora, spostando il fuoco dalle cose in primo piano a quelle in secondo, la battaglia si è combattuta su questioni di principio, e, anche in questo caso, una grossa scintilla era stata accesa prima che il fuoco divampasse: l’articolo di Alex Androu, anch’esso di metà luglio (quando è stato ratificato l’accordo), che ha goduto di ampia circolazione e nel quale si scriveva: «Ci scusiamo con i marxisti di tutto il mondo se la Grecia si è rifiutata di commettere un suicidio rituale per promuovere la causa. Voi ne avrete sofferto sui vostri divani. È rivelatore del panorama politico europeo – anzi, mondiale – che i sogni di socialismo di ognuno sembravano poggiare sulle spalle del giovane Primo Ministro di un piccolo paese. Sembrava che ci fosse una fervente, irrazionale quasi evangelica credenza, che un piccolo paese, affogato nei debiti, a corto di liquidità, avrebbe in qualche modo (e quel qualche modo non viene mai specificato) sconfitto il capitalismo globale, armato solo di bastoni e pietre».
Perché è la questione di principio quella sulla quale si è spaccata Syriza e sulla quale Tsipras concilia finemente il piano simbolico e quello tattico: «Essere rivoluzionari» ha infatti dichiarato l’ex premier «non significa ignorare o negare la realtà, ma aprire nuove strade quando non esistono». Per quanto sia apprezzabile e necessaria la nostra capacità di stare sul fronte, dicevano i francofortesi, ci sono momenti della storia in cui il contesto ci impedisce di avanzare. Forzare la mano ora avrebbe significato polverizzare partito, governo e paese contro il muro della reazione neoliberista e della sua versione delirante ordoliberista tedesca: né più, né meno. Nel messaggio di Tsipras questo concetto è affidato, ancora a una volta nella storia, allo scudo: non lo cederemo al nemico, ma nemmeno torneremo sopra di esso, non siamo archilochi, ma nemmeno spartani, che oltre all’onore ci hanno mostrato ben prima di Atene, a quale asfittica moria conducano certi eccessi di caparbietà; «vi assicuro che non consegnerò, non consegneremo lo scudo delle nostre idee e dei nostri valori. A nessuno e davanti a qualsiasi difficoltà. E vi invito, tutti insieme, con sangue freddo e determinazione, a dare la difficile battaglia per rimettere in piedi il nostro paese».
Per tutti questi motivi dopo aver messo in sicurezza il paese per un po’ dal punto di vista della tenuta sociale ed economica (è bene specificarlo), Alexis Tsipras apre e chiude la crisi di governo affidandosi ancora una volta agli elettori – nessun “colpo di stato” renziano, contrariamente a quelli che già lo paragonano a Matteo Renzi. Perché i principi possono pure ammazzarci nella culla, mentre qui tutto è ancora da fare. Ciò, in questo momento, non comporta nemmeno lontanamente il loro abbandono, ma una riflessione strategica, all’interno e all’esterno, come già sta facendo Varoufakis, che non ha aderito alla formazione di Lafazanis (Unità Popolare, creata in due giorni insieme a 25 ex-Syriza) ed è volato in Francia, al congresso estivo dei socialisti, senza far mistero di voler lavorare alla costruzione di una sinistra europea anti-austerità (e non nazionale).
A suggerirci l’estrema delicatezza e importanza del momento è la nostra emotività, quella scatenata dalla radio, alla quale forse dovremmo dare più ascolto in più occasioni, che si palesa e si agita contro quella caratteristica peculiare della negatività patologica, sottolineata da Androu, di concentrarsi solo su ciò che si perde invece che su ciò che si ottiene, solo sul negativo e mai sul positivo, sulla volontà di devastare mandando tutto in una malora spesso peggiore del negativo, senza fare mai realmente i conti col negativo. L’implosione, per ora sventata, dell’esperienza di Syriza e con essa dell’esperienza greca d’alternativa in quanto tale ha un peso che va ben al di là dei confini greci, riguarda i nostri giorni futuri, di italiani, spagnoli, francesi, tedeschi, belgi, americani, russi, africani, sudamericani e cittadini del mondo. Comporterebbe l’indebolimento delle prospettive spagnole; l’impasse imbarazzante di una sinistra italiana talmente logorata e poco originale in termini di pensiero e cultura politica da ricercare la via non in Syriza, non in Podemos ma in Syriza e Podemos (sempre terze vie noi, mai una volta che si immagini una via maestra); una battuta d’arresto drammatica della lotta alle politiche di austerità e di quella per un’Europa diversa da quella che abbiamo sotto agli occhi.
Comporterebbe, tristemente, un oscuramento di quei giorni futuri. I nostri giorni che, se la Grecia cadesse, tornerebbero ad essere avvolti in nebbie più dense. E noi, che non siamo avvezzi a sognare, allora avremmo un po’ di difficoltà a immaginare che siano ancora là, dietro le nebbie del fronte, e a disegnare verso di loro le strade da percorrere.
di Aurelio Lentini
*Gli estratti del messaggio di Tsipras sono stati tradotti da Amalia Kolonia
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