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Una voce spiacevole

Siamo alle solite: campagna elettorale e Matteo Salvini si improvvisa bullo, questa volta suonando citofoni in cerca di spacciatori.

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Un campanello suona in un anonimo primo piano di un palazzo della periferia bolognese. Tra l’odore della cena e le voci della tv un uomo si avvia verso il citofono. «Pronto» scandisce un vocione dall’apparecchio. Siamo alle solite: Matteo Salvini già Ministro dell’Interno, nel suo tour elettorale in Emilia Romagna, si improvvisa bullo e le polemiche scattano come una molla tra le pagine dei quotidiani e i chiacchiericci al bar.

I fatti

Questa volta il leader della Lega è stato ripreso mentre, su informazione di una signora che abita nello stabile, apprende che gli inquilini del primo piano, una famiglia tunisina, hanno la nomea di spacciatori in zona. La decisione di Salvini è immediata: dopo essersi informato sulla eventuale abusività, citofona alla famiglia, sotto le luci accecanti dei flash e delle telecamere. Gli chiede, prima di entrare nell’abitazione, «qui vive uno spacciatore?». La reazione dell’interlocutore è immediata: chiude le comunicazioni sbattendogli il citofono in faccia. Altrettanto immediata è anche la reazione del Vicepresidente tunisino Osama Al Saghir, che con parole di sdegno ha inequivocabilmente condannato il gesto.

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Lo specchio del Paese

Un piccolo episodio, alcuni diranno «marginale» e forse provocato appositamente per scatenare l’attenzione mediatica. Ma, allo stesso tempo, sicuramente significativo ed emblematico di una intera carriera politica. Il video del citofono – già diventato virale in rete e soggetto a remake e meme – ci rivela il vero Salvini e la sua strategia politica, inconsapevole o, più probabilmente, consapevole.

In poche immagini c’è un’Italia purtroppo ancora oggi attuale: quella del pregiudizio, del chiacchiericcio, delle maldicenze, un’Italia bigotta che vede il prossimo come un nemico, un’Italia da baruffe chiozzotte o da Sicilia sciasciana, un’Italia dal pregiudizio soffocante ma non soffocato (bensì alimentato) dalla politica. Il leader del Carroccio, che pensa impropriamente di essere di centro-destra, dice infatti spesso di essere il difensore delle leggi e dell’ordine, dimenticando che, in uno stato di diritto, tutti sono innocenti fino a prova contraria, rendendo la sua operazione di giustiziere più simile a quella di un investigatore della STASI, che non a quella di un magistrato. Le uniche leggi che difende sembrano essere le «leggi sociali» non scritte, che regolano i nostri pregiudizi, che danno voce alle nostre maldicenze e al vociare di una vecchia portinaia nell’androne.

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Queste voci, che pure possono sembrare ai più innocue e pittoresche, sono quella parte dell’essere italiani peggiore. Quella parte che la politica dovrebbe contribuire a mettere in un angolo. C’è chi, però, nell’involuzione della società ci sguazza e agisce come una tela bianca sulla quale, perversamente, vengono rigettate tutte le nostre paure e odi più reconditi, di cui forse ci vergogniamo ma che, una volta sulla tela ci sembrano accettabili e giustificati. In questa chiave di lettura, Matteo Salvini è la massima espressione di una società malata che va compresa e aiutata, ma non giustificata. Il reale problema di questo episodio e della linea politica della sua Lega non è quello di ascoltare la gente, ma di farsi megafono di tutto ciò che ha da dire, indipendentemente dalla correttezza e dall’eticità di ciò che viene detto.

Matteo Salvini suona al citofono

Salvini e non solo

E’ stupido pensare che non esistano odio e razzismo nella società, ma è altrettanto stupido pensare che sia Matteo Salvini ad averli creati. Sono infatti paure che la Lega di oggi si è limitata ad estrarre dall’inconscio degli italiani con grande intelligenza politica, rendendole accettabili (così come fece Mussolini, il quale disse «Non ho creato il fascismo, l’ho estratto dall’inconscio degli italiani»). E così Salvini veste mille panni tra i più disparati – poliziotto, infermiere, pasticciere, pettegolo, giustiziere della notte – davanti ad un pubblico in visibilio con le lacrime agli occhi.

In un’Italia che, per dirla alla maniera di Dante, è sempre più «non donna di provincie, ma di bordello». 

Andrea Potossi

Foto in apertura: TPI

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