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Fonte: www.theguardian.com

Un’occasione da non perdere

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Fonte: www.theguardian.com
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«I poveri hanno votato contro l’Ue, soffrono gli effetti della globalizzazione. La riflessione importante da fare è che le classi abbienti hanno votato per il remain e le classi povere invece per il leave». Sono queste le parole che Romano Prodi, ex presidente della Commissione Europea e Premier italiano, oltre che convinto europeista, ha pronunciato commentando i risultati della del referendum britannico. L’immagine emblematica è forse quella degli yacht dei miliardari della City che facevano propaganda sul Tamigi per far votare Remain da un lato, e i pescherecci guidati dal leader Ukip Nigel Farage, a sostegno della Brexit dall’altro.

Il risultato per molti è scioccante ma, verrebbe da dire, che cosa ci potevamo aspettare? Come abbiamo avuto modo di dire anche in un recente articolo, una questione è stata posta al centro del dibattito: la migrazione intra ed extra europea. La possibilità che persone provenienti dalla Polonia, dall’Italia, dalla Spagna e da qualsiasi altro paese dell’Unione potessero liberamente circolare e aver un lavoro nel Regno Unito è stata percepita dalla maggior parte della popolazione come una minaccia al Welfare State britannico. Non siamo nuovi nemmeno noi in Italia a queste forme di ragionamento: io pago le tasse per qualcun altro che viene qui e usufruisce dei miei servizi. Quello che suona un po’ più strano è il fatto che gli stessi che si lamentano per le minacce al sistema previdenziale nazionale sono quelli che ugualmente hanno votato a larga maggioranza l’anno scorso per il partito conservatore, per la terza via neo-liberale di Tony Blair e per tutte quelle posizioni politiche che in passato hanno sostenuto lo smantellamento del sistema di stato sociale. E già, perché, come ha ricordato molto bene il Professore, sono proprio coloro che hanno subito maggiormente gli effetti della globalizzazione e dello smantellamento del sistema dei diritti e delle garanzie sociali che hanno votato per lasciare l’Ue.

Emblematica è, non a caso, la distribuzione del voto, che vede il Regno Unito spezzato in due, con la Scozia e l’Irlanda del Nord, storicamente e tradizionalmente più socialiste e con Londra, città che più di tutte ha profittato della globalizzazione e del proprio essere un paradiso fiscale nell’Unione, che hanno votato per rimanere. Al contrario, tutta l’Inghilterra e il Galles si sono espressi per andarsene: hanno votato contro quelli che hanno visto la de-nazionalizzazione delle industrie di Stato, quelli che hanno perso il lavoro a causa della progressiva terziarizzazione del mercato del lavoro, quelli che hanno visto i propri figli non trovare lavoro e costretti a migrare all’estero.

Gli scenari che si prospettano a questo punto sono diversi e imprevedibili. I lavori del Parlamento europeo sono stati sospesi, la direzione nazionale del Partito democratico annullata, una riunione straordinaria dei sei paesi fondatori si riunirà lunedì (27 giugno) a Berlino, per martedì dalle 10 alle 12 ci sarà una plenaria straordinaria del Pe. I toni si sono fatti subito forti e, oltre le dimissioni del premier britannico, sono seguite le dichiarazioni del presidente Martin Schulz e del capogruppo dei Socialisti e Democratici Gianni Pittella, che hanno dichiarato che ora l’Unione europea deve affrontare un dibattito serio e definitivo sulle scelte politiche e la direzione ideologica verso cui deve andare. Quello che è certo è che non ci si deve perdere in tecnicismi e analisi delle procedure di uscita e non si devono fare riflessioni tecniche sulle eventuali conseguenze economiche. Come ha giustamente dichiarato il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Junker: «Chi è fuori è fuori».

Purtroppo le forze euroscettiche, come è emerso nelle dichiarazioni della leader del Front National francese, Marine Le Pen, hanno adottato sin da subito un tono garantista: l’Uk è uscita dall’Ue ma potrà mantenere gli attuali accordi commerciali, come la Norvegia o la Svizzera. Non possiamo permetterci questo tono permissivo e “political correct”.Perché, come ha giustamente evidenziato Mario Monti, non è più tempo del politicamente corretto, delle concessioni e degli accordi al ribasso. Dobbiamo investire in maggiore Europa e maggiore condivisione e riconoscimento reciproco tra i popoli europei. Ci saranno conseguenze importanti nei prossimi mesi: come europei è necessario che ci chiariamo prima di tutto verso dove dobbiamo andare.

Va fatto capire che chi esce dall’Unione non godrà dello stesso trattamento che aveva prima. Solo in questo modo sarà possibile liberarci definitivamente dei ricatti dei populismi che vivono e prosperano delle proprie grida ma che non si assumono la responsabilità delle conseguenze delle proprie azioni. Dopodiché sarà fondamentale che si ridisegni un’Europa più democratica, che condivida in primo luogo una linea politica condivisa. Non dobbiamo quindi avere una linea morbida, non dobbiamo rinunciare all’applicazione immediata dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona.

Come già detto, le possibilità che si aprono sono veramente infinite: ricollocamento della posizione dei paesi dell’Est europeo (Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria) che perdono il loro partner più importante nel contrasto a politiche comuni per l’immigrazione ma anche nell’intesa sulle politiche economiche; si apriranno scenari di secessione, come quelli già annunciati dalla Scozia, e referendum per lasciare l’Unione, come già chiesto dal Front National; si apriranno due anni di revisione dei trattati in cui il Regno Unito dovrà negoziare la sua posizione. Sul piano politico ci sarà e c’è già un grandissimo movimento. Quello che però non dovremo dimenticarci sono le cause che hanno portato a questo conflitto: il populismo è nato come risposta all’insoddisfazione dei cittadini per un certo tipo di politiche e per una certa idea sbagliata di cosa fosse l’Unione europea. Per ripartire servirà chiarezza e unità. L’uscita del Regno Unito è la più grande possibilità per ricostruire un’Europa unita e democratica.

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Francesco Corti

Dottorando presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano e collaboratore dell'eurodeputato Luigi Morgano. Mi interesso di teorie della democrazia, Unione Europea e politiche sociali nazionali e dell'Unione. Attivo politicamente nel PD dalla fondazione. Ho studiato e lavorato in Germania e in Belgio.

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