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La vana disperazione del vivere

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Silenzio, un lieve guardarsi intorno e poi un’illuminazione, come un segnale abbagliante in una strada buia. Un po’ come in libreria, quando tra centinaia di volumi nuovi di zecca, impilati ordinatamente al pari di scatole di cornflakes, si trova qualcosa che rapisce la nostra attenzione. Non è il lettore a scegliere il libro ma è questo ad andare lui incontro, si mostra quasi improvvisamente quando ha deciso che era il momento di venir fuori. Carte da Sandwich, poi, ha la copertina bianca. Un Einaudi poesia piccolo e compatto, di quelli con i versi in bella vista pronti per essere assaporati di prima mano. Il bianco è il non-colore per eccellenza, contiene in sé tutti gli altri e ne è l’origine primaria. Un po’ come la poesia di Attilio Lolini, che è fatta di albe sbiadite e folate di vento, andamenti stanchi del paesaggio e stati di rassegnazione. Un contenitore mai strabordante di tutte le disillusioni.

lolini

«Chi non si siede davanti / al palcoscenico / della propria vita // alla recita / ammutolita // che penosamente / balbettammo / da una scena all’altra». Cadono le «maschere / malate di ruggine» là dove «il tempo ci smembra come un coltello affilato», siamo vittime del mondo e del deteriorarsi delle cose, dei sentimenti che avevamo e che come fiamme si accendono, divampano, poi si spengono. È tutto fugace, passeggero, indefinibile. «La vita è un’ombra che passa sul tappeto», e ciò che resta di noi sono rifiuti, scorie, «carte da sandwich» che i gabbiani ostentano nel becco.

Non resta altro che vivere l’ennesimo «giorno delle repliche», in un’esistenza che è fatta di sospensione, incertezza, precarietà. Nei Versi a mezz’aria, specialmente, la notte vale più del giorno, il sonno più della veglia. «Che bisogno c’è di uscire? / Ho trovato un alberghetto / me ne sto a letto», perché la stasi, assai più del movimento, è congeniale a questo mondo.

Lolini ci avverte subito, non c’è prospettiva per noi vittime dello scorrere del tempo. «Se bussano alla porta non aprire» dice in apertura di raccolta, «se dicono: alzati! / cacciati sotto le lenzuola / rientra nelle trasparenze / di pareti nude dove sconfitti / stanno i desideri» perché è «esile il filo della vita» e «anche le stagioni / non danno doni / non chiedere perché / siamo qui / senza conoscere alcunché / carichi del peso / di cose senza nome».

uomo in spiaggia da solo. Lolini

Quella dell’esistenza è una recita meschina, perché «le cose badano a trasformarsi / in altre cose, fogli / piccoli scarafaggi / dalla dura corazza / stanno sul davanzale» e le persone, allo stesso modo, hanno «gentili parole / in cui credemmo / volano leggere / poi cadono sui rami / pendule a irridere / oggi e domani». «La felicità [è] / una stanca / invenzione» ed ecco perché allora, «quando cominci / a morire / non sai perché».

Forse non te ne accorgi, semplicemente, perché non hai mai vissuto. «I piedi ci conducono / dove devono andare // nelle soffitte dei sospiri / abitate dai vampiri // dove non c’è più luce / ma sta inanellato / un fiore smaltato //  a noi scomparsi nei flutti del niente // corrente di margine di chi non sente // la città va avanti / con le sue torri / le sue strade // ma restano contrade dove il buio assale».

Perché non c’è luce alcuna nella solitudine dell’esistenza. «[…] // vanno in fila le ore / avanti e indietro / con monotono passo // nelle strade di inesistenti contrade // come noi che viviamo senza saperlo». E anche le parole, assai spesso, perdono il loro senso di autenticità: «Non scriverle / se le porti il vento // nel secchio magico / del non detto // come insetti / diventati farfalle». Perdono il proprio valore perché «[…] ci somigliano / come amici noiosi». Se siamo meschini, vuoti, lo saranno anche loro.

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Resta però la poesia che «[…] abita una vecchia culla / nasce felice / se non dice nulla». Così Lolini sposa la saggezza dell’Ecclesiaste e nella sezione dell’Imitazione cita e rivisita autori che si prestano alle sue corde, alla presa di coscienza attiva di tutto ciò che si sgretola, senza risparmiare alcunché. «Un vuoto nulla / ascolta / un infinito / niente», in una vita in cui «si vede poco / se non l’inganno / e il gioco».

Ma, come scrive Eugenio Montale, «Vieni qui, facciamo una poesia che non sappia di nulla e dica tutto lo stesso». Le parole si fanno vacue, «le cose le persone / badano a trasformarsi / a prendere altre forme / prima di scordarsi» ma la poesia, come quella di Lolini, ha ancora il potere di poterci salvare.

 

Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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