Ludwig Wittgenstein credeva che praticare la filosofia significasse far buon uso del nostro vocabolario. Il filosofo non inventa concetti – sorta di deleuziano jedi del pensiero – ma chiarisce, deterge, scrosta da residui d’incomprensibilità i significati delle parole. Non mette la cera – piuttosto, la toglie.
Problemi
Tutto ciò è bello, si penserà. Non semplice ma bello. In fondo circoscrivere è un’operazione più accessibile, più concretamente effettuabile che inventare, e se per il filosofo si tratta, come quando eravamo bambini, di contornare col pennarello nero il bordo di un disegno per accentuarne il risalto, per dar vita al risalto, allora possiamo ben militarizzare questo esercizio, ridurlo a schema, renderne massima l’operatività.
Il punto è che alcune, anzi, molte delle parole che popolano il nostro vocabolario sono se non strutturalmente, almeno in parte indefinibili. Ad esempio, è lampante, non possiamo recintare con precisione dietro ad un significato chiaro e distino la parola “Bene”; ma non possiamo neanche fare a meno della parola “Bene”, lasciando cadere per imputabilità metafisica tutta la parte di filosofia che ad essa si richiama: l’etica. Rimangono i piedi scoperti.
Iris Murdoch
Iris Murdoch, che fu allieva di Wittgenstein, capì perfettamente il problema. Sbarazzarsi dell’etica in virtù di una sua inadeguatezza o indefinibilità (il che, per Wittgenstein, era lo stesso) semantica, è insterilire la filosofia, snaturarla, tradirne in qualche modo la sua propria origine. In questo caso, l’oscuro è da preferirsi al chiaro. Oscuro perché non circoscrivibile, allora, è il concetto stesso di bene. Di cosa parliamo quando parliamo di bene, si domanda la Murdoch, ricalcando Platone? Parliamo, sostanzialmente, di due cose: di trascendenza e di attenzione.
Trascendenza
Di trascendenza, perché buono (e bello) è ciò che costringe ad obliare il nostro ego catatonico, ossia a scavalcarlo per lasciarci dietro ogni vincolo umano, troppo umano, al nostro io. Le cose buone dimorano al di là di questo reietto, infimo reietto metafisico che si chiama uomo. Trascendere se stessi è l’inizio, l’occhio che si schiude per focalizzare il bene, le chiavi cercate altrove che tenete ancora in mano. Prima di tutto, dimentichiamo noi stessi, affoghiamo il sé nel suo stesso orgasmo, per gettarci al di fuori delle cose, là dove le cose sono. L’esperienza della trascendenza che prelude alla morale, secondo la Murdoch, è l’esperienza della bellezza.
La Bellezza, come l’intendeva Platone, ci prende per il colletto trascinandoci verso di lei. Le cose belle, davvero belle – un paesaggio di montagna immerso nella solitudine, un falco che squarcia il cielo, un paio di scarpe dipinto da Van Gogh – ci toccano con una forza taumaturgica, spegnendo la miccia dell’io: noi, contemplando, siamo il paesaggio, il falco, il dipinto. È vero, tanto che nel suo etimo contemplare designa l’operazione del funzionario religioso che scruta il cielo a caccia di presagi. Il bello ci costringe a contemplare, a perderci nella visione.
«Bellezza è il nome convenzionale e tradizionale di qualcosa che l’arte e la natura condividone e che dà un significato evidente all’idea di qualità dell’esperienza e di trasformazione della coscienza. Guardo fuori dalla finestra, in uno stato d’animo ansioso e risentito, intcurante di ciò che mi sta intorno […]. Poi all’improvviso noto un falco sospeso nell’aria. In un solo istante tutto cambia. L’uo che rimugina sulla propria vanità ferita scompare. C’è soltanto il falco. E quando torno a quello che stavo pensando, non mi sembra più così importante»
Attenzione
Di attenzione, perché questo itinerario che indica la Murdoch, dal sapore vagamente buddhista, si traduce in una presa di consapevolezza più vera, più concreta del problema morale in questione. Solo attraverso l’oblio di sé è possibile un giudizio retto, buono, empatico. L’attenzione è la distanza costruita fra sé e sé, la ricerca di uno sguardo votato all’alterità: «l’attenzione è diretta, contrariamente a ciò che avviene di solito, verso l’esterno, lontano dal sé che riduce tutto a una falsa unità, verso la grande e sorprendente varietà del mondo». L’attenzione è per così dire il momento mistico della presa di coscienza morale.
Allenare la visione all’attenzione significa allenare il nostro Io a dimenticarsi di sé. Non è facile. Non lo era per il filosofo della caverna di Platone, che uscito dall’oscurità per vedere la luce del sole, si ritrovava con la vista appannata una volta rientrato nella vecchia dimora, pronto ad avvertire i compagni per fuggire di là. Ah, piccola nota a margine: alla fine i compagni lo uccisero. E se l’Io non fosse altro che questa tentazione di starsene nella caverna, di ostacolare ogni sovvertimento? Iris Murdoch ci dice che sì, prima di essere buoni, bisogna imparare a vedere – a vedere veramente. Ma lasciatevi convincere da lei, leggetevi Esistenzialisti e mistici e capirete cosa diavolo pensava Dostoevsky quella volta, quando scriveva che la bellezza salverà il mondo.