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Francesco Guccini: il ritratto di un Maestro del cantautorato italiano

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7 minuti di lettura

Francesco Guccini nasce il 14 giugno 1940 a Modena, ma pochi mesi dopo si trasferisce con la madre a Pavana, località nel pistoiese che abbandona cinque anni dopo per tornare nella “piccola città”. È qui che l’artista dalla erre arrotata cresce, si diploma e scopre la musica cominciando a suonare per un complesso chiamato I Gatti, del quale facevano parte alcuni membri della futura Equipe 84. Nel 1967 esce il suo primo album solista, Folk Beat n.1, che contiene alcuni brani come Noi non ci saremo, Canzone per un’amica, Il sociale e l’antisociale e Auschwitz.

«E voi bimbe sognatrici della vita delle attrici, attenzione da me state alla lontana: non mi piace esser per bene, far la faccia che conviene poi alla fine sono sempre senza grana… »

Francesco Guccini, Il sociale e l’antisociale

Emerge sin da subito un giovane artista, tipicamente italiano, dal timbro originale, dedito alla vita semplice (o, come dirà lui tante volte nelle interviste, alla “vita di provincia”) fatta di schitarrate e serate all’insegna del vino. Totalmente immerso nella sua gioventù, Francesco Guccini si prende il lusso di affermare la propria indole e le proprie ideologie nel mondo musicale, con un riscontro però abbastanza modesto, targato “500 copie”.

Passano tre anni e nel 1970 esce Due anni dopo. “Francesco”, come scritto in copertina, questa volta si addentra in qualcosa di più personale, lasciando da parte (eccetto per La primavera di Praga) la politica: l’album si apre infatti con Lui e lei.

«Lui e lei s’incontrano d’accordo nel consueto vecchio posto d’ogni giorno.
Lui e lei ritrovano ogni cosa che già il tempo ha ricoperto con la noia.
Ed ogni giorno ormai sentirsi raccontare la storia conosciuta, la frase risaputa, la propria morta vita»
.

Finalmente (visto che la sua prima canzone d’amore la scrisse a diciotto anni, “piena di errori grammaticali”) l’artista – con tutta la modestia che lo caratterizza – trova il coraggio di parlare di sentimenti quotidiani, che allietano la gioventù ma portano, di gran lunga, alla borghesizzazione. Solo Ophelia sembra salvarsi, la dolce eroina shakespeariana dai lunghi capelli biondi e la veste perennemente bianca. Ella è il lato dell’amore che rifiuta di cedere ai compromessi, preferendo la morte – ed è proprio la morte l’altro tema del secondo album, che troviamo ne L’albero ed io, una morte accettata naturalmente, dopo la quale il corpo tornerà «sotto quel cielo così misterioso».

Da qui, tutti gli altri album di Francesco Guccini (Radici, Via Paolo Fabbri 43, Signora Bovary e Stagioni sono solo alcuni esempi) arrivano come un soffio caldo in cui si consolida la visione del cantautore disilluso, sognatore ad occhi aperti e pittore minuzioso della realtà. “Il Guccio” è il narratore di terza classe che non risparmia nessuno, nemmeno se stesso, e affetta la realtà con un coltello decisamente unico.

«Non siamo la polvere di un angolo tetro, né un sasso tirato in un vetro.
Lo schiocco del sole in un campo di grano: non siamo, non siamo, non siamo…
Si fa a strisce il cielo e quell’alta pressione è un film di seconda visione, è l’ urlo di sempre che dice pian piano:
“Non siamo, non siamo, non siamo…”»

Francesco Guccini, Quello che non

Questo suo “non essere” l’ha portato per tutta la sua carriera a rifuggire la fama, preferendo piuttosto le balere e la gente che le frequentava. È grazie forse a loro che Guccini riesce a digerire ogni evento e a farne così poesia da strada, rubando (perché: «Se non sei molto conosciuto, allora rubi; se sei invece molto conosciuto, ti fai ispirare») la musica a culture diverse, come nel caso di Scirocco, tango dall’atmosfera (ormai) familiare bolognese.

 Nel 2012, dopo un silenzio durato otto anni, esce L’ultima Thule. È questo un album stanco, nel quale Francesco Guccini sembra tirare le somme di quel che fu; è ormai privo di quel veleno, la sua infanzia ritorna e così anche il suo senso di appartenenza alla campagna e alle montagne. La passione non manca, ma è una passione differente, pacata, come un ubriaco che balla tutta la notte e poi crolla all’alba.

«Quando è stata quell’ultima volta che ti han preso quei sandali nuovi
al mercato coi calzoni corti e speranza d’estate alla porta
ed un sogno che più non ritrovi.
E quei sandali duravan tre mesi, poi distrutti in rincorse e cammino!
Quando è stata quell’ultima volta che han calzato il tuo piede bambino
lungo i valichi dell’Appennino?»

Francesco Guccini, L’ultima volta

E così, quell’anno esce il ventiquattresimo ed ultimo album di un grandissimo poeta, che si congeda suscitando, come sempre, un profondo rispetto.

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Francesco Guccini ha donato alle varie gioventù i mezzi per capire la bellezza della vita in tutte le sue sfumature: dallo studio della storia ai viaggi, dall’amore convenzionale a quello anticonvenzionale, dalle ubriacature di paese e di città alla morte; nelle sue canzoni ha racchiuso i più grandi moti interiori e, attraverso di essi, ha insegnato la profonda importanza del custodire un ideale, che non è solo un errore in cui si incappa da giovani – ci si può credere con vigore anche a cinquant’anni.

 


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Miriam Di Veroli

Classe 1996, studia Lettere moderne all'Università degli Studi di Milano.

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