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Cesare Pavese

Anche le Muse sospirano: i “Dialoghi con Leucò” di Pavese

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6 minuti di lettura

Anche le Muse sospirano.  Di fragile e violenta poesia risuona il loro canto, altissimo e silenzioso, quasi per orecchie iniziate. Cesare Pavese ne volle catturare il riverbero dando vita a quei piccoli capolavori che sono i Dialoghi con Leucò, scritti in due anni a partire dal ’45 e pubblicati nel ’47 per i tipi di Einaudi. L’elegante edizione del 2014, corredata da una bella introduzione di Sergio Givone, è un prezioso gioiello da conservare con cura.dialoghi con leucò

Traccia di un confronto ininterrotto col passato del poeta piemontese, i Dialoghi con Leucò raccolgono ventisette brevi, anzi, brevissimi resoconti di colloqui immaginari tenutisi fra le figure del mito classico. Pavese vi assiste, ascolta, e riporta le parole udite. Achille e Patroclo, ad esempio, la vigilia della morte di quest’ultimo, sorseggiano quasi ubriachi un boccale di vino davanti alle alte mura della sacra Ilio, guardando in faccia l’oscura notte che reca con sé il morire. Dice Achille rivolgendosi all’amico: «Patroclo, perché noi uomini diciamo sempre per farci coraggio: “Ne ho viste di peggio” quando dovremmo dire: “Il Peggio verrà. Verrà un giorno che saremo cadaveri?”». Un Achille spaurito di fronte a Patroclo che non riconosce l’antico compagno nelle tragiche e gravose parole che escono dalla bocca del Pelide. Il luminoso piè veloce Achille si mostra nascostamente tremante dinnanzi alla fatal quiete che mai ci saremmo aspettati potesse spaventarlo.

Pavese nei Dialoghi  porta in scena i volti nascosti dei grandi personaggi del mito greco, sorpresi nella cupa riconsiderazione della loro esistenza, della vita, della morte, del destino. Inquietante è la confessione di Orfeo ad una Baccante: «È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscio del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo […]. Pensavo alla vita con lei, com’era prima […]: valeva la pena di riviverla ancora? Ci pensai e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii solo un cigolio, come d’un topo che si salva». Orfeo volle voltarsi a rimirare l’amata Euridice, abbandonandola all’abbraccio dell’eternità infernale. Senza compromessi, nell’autenticità compulsiva del rifiuto di una vita già vissuta e ormai appassita.

Come autentico è il cuore di Saffo, e le sue membra, sciolte in un amore selvaggio estraneo alle orecchie della sua interlocutrice Britomarti, leggendaria compagna di caccia di Artemide. Saffo, riporta Pavese, cerca il mare con gli occhi, quel mare che nella schiuma generò Afrodite, antica dea bersaglio di rancori ed elogi tessuti nei canti degli aedi. E l’incomprensione, come fu di Britomarti, è anche di Calipso che accolse sull’isola di Ogigia l’eroe Odisseo per sette anni. Sono fragili i tentativi  della ninfa, persa nell’amore per Odisseo, di trattenere l’eroe sull’isola: i due si scambiano parole profonde che scavalcano l’accidentalità narrativa per tramutarsi in riflessioni sull’incongruenza di un sentimento non corrisposto. È il rifiuto di abbandonare un ricordo lontano ma serbato nel cuore che fa di Odisseo un eroe, il rigetto di una vita come di foglia, in preda al vento dell’istante e passivamente aggiogata dal destino che forgia la virtù dell’itacese. Dice Calipso: «Che cos’è la vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?» E risponde Odisseo: «Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa […]. Quello che cerco l’ho nel cuore, come te».

Leucotea non è solo figura del mito ma anche nome parlante. Leukò per i greci è il bianco e ad una Bianca (Bianca Garufi, poetessa amica di Pavese) i Dialoghi sono dedicati, ricongiungendo presente e passato. Il mito dunque, pare suggerirci Pavese, non è occupazione vana o flebile luce di un mondo lontano ma scrigno dell’eterno ricorrere dei dubbi, delle incertezze, dei grigiori, delle angosce che tormentano l’uomo nella carne e nella mente. Il passato ne rappresenta il deposito. Pavese con i Dialoghi con Leucò indica la strada per attingere alle meraviglie e gli sconforti di un mondo che nel suo fondo sempre ritorna. Mondo che dimora unicamente nell’intimo del nostro cuore, come d’altronde i greci avevano ben capito facendo di tale sapienza l’iscrizione scolpita sul frontone del tempio di Delfi, che così recitava: «conosci te stesso».

 

 

Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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