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Avere o essere? Fromm tra poesia e letteratura

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Nei primi anni del Seicento, il celebre «Essere o non essere» dell’Amleto di Shakespeare ha rappresentato il dilemma dei dilemmi. Qualche secolo più tardi, in linea con i cambiamenti culturali e sociali del XX secolo, dal «To be or not to be» (Essere o non essere) si è passati al più recente «To have or to be» (Avere o essere). A delineare questo nuovo paradigma è Erich Fromm (1900-1980), psicanalista e sociologo tedesco che nel celebre saggio Avere o essere? (1976, acquista) si pone l’obiettivo di  analizzare due modalità dell’esistenza, quella dell’avere e quella dell’essere.


Per spiegare queste modalità, Fromm, nell’introduzione al saggio, prende ad esempio tre poesie, scritte da diverse personalità per dimostrare i contrasti tra queste due facce dell’esistenza.

I tre autori sono Alfred Tennyson, Matsuo Bashō e Johann Wolfgang Goethe che hanno descritto in termini poetici la loro reazione alla vista di un fiore.

Il primo, Tennyson, vedendo un fiore cresciuto tra le fessure di un muro screpolato, non resiste alla tentazione  di  averlo tutto per sé, opta così di strappare «radici e tutto» per soddisfare l’esigenza di possederlo.

Matsuo Bashō, invece, nel suo haiku (semplice componimento poetico della tradizione giapponese, composto di tre versi e diciassette more), mostra come l’interesse dello spettatore nei confronti del«nazuna che fiorisce» si limiti alla sola osservazione, attenta e rispettosa, identificandosi con «l’essere vita» del fiore.

L’evidente differenza tra queste due modalità esistenziali è rappresentata da un poemetto di Goethe, intitolato Gefunden (Trovato), che può essere considerato una via di mezzo tra i due approcci precedenti. Infatti, l’autore, durante una passeggiata nel bosco, viene attirato dalla luce splendente di un fiore.

A quel punto, anche Goethe, non resiste alla medesima tentazione di Tennyson; coglie dunque il fiore «con tutte le sue radici» ma, consapevole che così finirà per morire, sceglie di trapiantarlo in una zolla vicino a casa per mantenere in essere quella bellezza che lo aveva attirato in pochi istanti.

Proponendo come spunto queste poesie, Fromm proietta il lettore al cuore del libro, riferendosi alla sfera dell’essere e a quella dell’avere non tanto come semplici espressioni ma, piuttosto, come «a due fondamentali modalità di esistenza, a due diverse maniere di atteggiarsi nei propri confronti e in quelli del mondo, a due diversi tipi di struttura caratteriale, la rispettiva preminenza dei quali determina la totalità dei pensieri, sentimenti e azioni di una persona».

L’autore ritiene che la condizione dell’uomo contemporaneo, subordinato alle macchine e disperso in un mondo senza riferimenti, sia essenzialmente dovuta alla modalità esistenziale dell’avere, considerata incapace di progettare futuri alternativi rispetto a quelli oggi presenti.

Per uscire da questo “modello dominante”, Fromm propone un’esistenza incentrata sulla modalità dell’essere, l’unica che grazie al suo dinamismo libererebbe l’uomo dalle catene dell’avere caratterologico, restituendogli un futuro  umanistico tramite l’adozione di nuovi valori.

In questa via d’uscita sembra quasi di rileggere la sfida tra pensiero calcolante e pensiero meditante contenuta nelle pagine de L’abbandono di Martin Heidegger, uno dei saggi finali che con la famosa sentenza del “lasciar-essere” (Gelassenheit), a differenza di Fromm, non lascia spazio a un nuovo umanesimo nell’età della tecnica.

Tornando all’analisi di Fromm, è evidente che la dinamica creatrice dell’essere e la staticità dell’avere siano caratteristiche fondamentali, rispecchiate fedelmente dal modus operandi e dal linguaggio utilizzato dagli individui.

A questa dicotomia avere-essere Fromm aggiunge l’avere esistenziale, ossia una forma dell’avere necessaria per l’esistenza dell’uomo; si tratta di «un impulso razionalmente indirizzato allo scopo di restare in vita, in pieno contrasto dunque con l’avere caratterologico» orientato al mero possesso.

L’avere esistenziale si pone quindi come orizzonte di senso la ricerca del necessario, non è in contrapposizione con la modalità esistenziale dell’essere ma è necessario alla stessa.

Per comprendere al meglio le due sfere esistenziali risulta forse più efficace riferirsi a due autori che, tramite i loro racconti, rappresentano al meglio l’autaut di Erich Fromm: Giovanni Verga e Josè Saramago (coincidenze storiche: quando muore Verga, nel 1922, nasce Saramago.)

                                      

Il primo, con la novella La roba (1880), contenuta nella raccolta Novelle rusticane, tramite il protagonista Mazzarò, un contadino siciliano che fonda la sua vita sul duro lavoro e sul continuo accumulo di beni materiali, rappresenta la modalità esistenziale dell’avere. Nel finale del racconto, quando gli viene anticipato che i suoi giorni sulla terra stanno volgendo al termine, Mazzarò reagisce furiosamente contro tutti i beni in suo possesso, a partire da anatre e tacchini che «andava ammazzando a colpi di bastone, strillando: “Roba mia, vientene con me!”».

Agli antipodi di Mazzarò troviamo una storia realmente accaduta, raccontata da Josè Saramago in occasione del discorso per il conseguimento del  Nobel per la letteratura vinto nel 1998.

Il protagonista di questa vicenda è suo nonno, Jerónimo Meirinho, anch’egli un contadino di campagna legato ai valori della terra che Saramago considera, nonostante fosse analfabeta «l’uomo più saggio che abbia mai conosciuto».

Un giorno Jerònimo, prima che fosse portato in ospedale, dal quale sapeva non sarebbe più tornato, decise di scendere nell’orto e tra i campi in cui aveva passato la sua intera vita. Salutò con le lacrime agli occhi albero dopo albero, abbracciandoli come fossero persone, afferma Saramago:

«…quell’ uomo era un semplice pastore, un contadino analfabeta, non un intellettuale, non un artista, non una persona colta e sofisticata che decideva di lasciare questo mondo con un grande gesto che la posterità avrebbe ricordato».

Oltre che alle preziose pagine di Erich Fromm, grazie alla poesia e a questo semplice confronto “letterario” risulta  immediata l’essenza del dilemma “Avere o essere?”; un aut-aut che oltrepassa la mera dimensione del possesso, arrivando a comprendere l’intero atteggiamento con cui si affronta la vita.

                    

Pietro Regazzoni

Nato a Lecco tra lago e monti nel 1997. Studio economia interessandomi di mille altre cose. Amo passeggiare e immaginare il futuro.

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