Se avete visto i Guardiani della Galassia vol.2 potete continuare a leggere per tirare un sospiro di sollievo e scoprire di non essere i soli custodi di certi “indicibili” pensieri. Se non lo avete ancora visto, invece, non fermatevi alla sola introduzione, andate avanti per scoprire la ragione più inaspettata per recuperare questa stranissima pellicola.
Di cosa si sta parlando? Del personaggio più amato dai nerd ambientalisti: Baby Groot.
Concluse le lunghe riflessioni riguardo il secondo capitolo dei Guardiani della Galassia appare necessario lanciarsi in un atto di grandioso coraggio per ammettere ciò che davvero, in questo film, rimane impresso in ogni memoria e che, ad un primo superficiale sguardo, non è altro che l’ennesima macchietta da Cinecomics.
Sarà per il suo essere amato dai più, direte, ma, come spesso accade, non risulta sufficiente soffermarsi a ciò che appare. Bisogna andare oltre e chiedersi quali siano i “perché” del suo essere amabile.
Per ben due ore osserviamo Baby Groot muoversi da una parte all’altra dicendo solo tre parole: «I am Groot», e, forte del suo aspetto, riuscire a divenire immediatamente il personaggio caratteristico dell’intera opera. Tu lo guardi e lo vuoi. È innegabile. Vuoi un Groot, un Baby Groot vero, e così, non potendolo possedere, ti lanci nell’universo dei surrogati commerciali: un pupazzo, un action figure o una cover per Iphone. Tutti modi per possedere un personaggio di fantasia, diventato di conseguenza pop, inventato (costruito, essendo tratto da un fumetto) per raggiungere quel preciso livello di amabilità.
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Un processo comune nel cinema post-moderno, basti vedere Regina Disney e il mondo di Store ad essa legati, ma che si riscopre ancora colmo di misteri; costruire per far amare, per far comprare direte, certo, ma, ancora di più, per rendere immortale e, solo di conseguenza, vendere. Una cosa che si costruisce per vendere solo nel breve termine, tra oggi e domani, è sempre e comunque un qualcosa di limitato, richiama precise influenze culturali del periodo e così diviene apprezzato da chi guarda in quel preciso momento, in quella sola realtà storica. Ma un prodotto ideato con l’idea di un’amabilità eterna, vendibile oggi, come tra 100 anni, è un prodotto di una genialità superiore che si esprime spesso, a sorpresa, in una semplicità di fondo.
Ora, torniamo a Baby Groot. Guardatelo; è carino no? Non puoi non innamorarti, ma innamorarti di un frutto di fantasia abbastanza semplice: una pianta che incarna gli atteggiamenti dolci di bambini tra i due e i tre anni, che ripete solo tre parole: «Io sono Groot». Un oggetto semplice che dice cose semplici. Quel ripetere costantemente un mantra di valenza universale («I am Groot») offre situazioni ironiche immediate, funzionali ed efficaci, permette di far credere che gli altri personaggi della storia possano capirlo, come a suo tempo solo Han Solo poteva capire Chewbecca (Star Wars ndr.) , e mettere così tutti d’accordo; niente di ciò che viene affermato da questo personaggio, verbalmente e non, appare interpretabile, ogni sua azione esprime e ripete se stesso facendoci vivere così in uno stato di quiete inaspettata. Una calma strana per un film in cui le esplosioni non vengono certo a mancare, una tensione paradossale che pone il film ancora una volta sopra ogni riga e che dunque ci pone il dubbio di essere davanti ad un grande inganno: è davvero giusto lasciarsi andare ad una mercificazione figlia dei lati artistici di ciò che per molti è il lato oscuro dell’industria cinematografica?
Smascherato il fine, commerciale, rimane solo da scegliere. Ma non tutto ciò che nasce per indurci artificiosamente ad una precisa emozione è obbligatoriamente così lontano da quell’emozione stessa.
Guardate Baby Groot; prodotto in vitro? Certo. Efficace? Più del previsto.
di Alessandro Cavaggioni
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[…] Baby Groot, arte in vendita: il lato oscuro dell’industria cinematografica […]
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