fbpx
body horror

Anatomia della patologia: malattia e wellness culture nel body horror contemporaneo

dalla newsletter n. 45 - dicembre 2024

10 minuti di lettura

La rappresentazione della malattia, del decadimento del corpo e dei fantasmi che lo dilaniano ha assunto diverse forme nella storia delle arti visive: dalle raffigurazioni apocalittiche delle grandi epidemie che hanno squarciato il tessuto sociale, dove la morte diventa una presenza tangibile e quotidiana che pervade lo spazio fino alla sublimazione della malattia e della sofferenza come simbolo di virtù e di pia rassegnazione e come luogo di ripiegamento interiore, i mali del corpo e della mente ricoprono il ruolo duplice di centro e di margine.

La salute e la malattia sono il fulcro dell’esistenza umana, una preoccupazione costante che ci ossessiona nel profondo: nello sforzo continuo di esorcizzare la paura e di relegare il corpo e i suoi malanni ai margini, quest’ultimi rimangono saldamente al centro dei nostri pensieri, motore delle nostre ossessioni, rituali e nevrosi.

Il cinema ha prodotto innumerevoli immagini della malattia: dai corpi ibridi di David Cronenberg fino ai corpi femminili che si deformano come argilla tra le mani del patriarcato, il body horror è diventato uno strumento per indagare i segni tangibili lasciati dalla società sulla pelle, la carne, le ossa dell’umano contemporaneo. In questo quadro la malattia non è una calamità scatenata dall’ira degli dei né il segno della fine del mondo, ma uno scenario quotidiano, un disfacimento controllato e persino auto-inflitto, ma anche una forza disordinata che serpeggia sotto le fondamenta della società e che emerge lentamente e senza sosta, presenza ossessiva e inevitabile.

Le malattie nella storia dell’arte: un breve compendio

Plague in London: “Lord have mercy on London” (1665).

Malattia come calamità, come presagio, come contaminazione: ma soprattutto come castigo divino, forza ingovernabile che gli esseri umani subiscono come punizione per essere stati cattivi, poveri, incapaci. La malattia è segno di debolezza, di carenze morali, psichiche, sociali: i morbi che affliggono il corpo e la mente diventano uno dei segni tangibili della devianza, dell’anormalità, di ciò che differisce dalla rigida norma sociale. Il decadimento fisico è intrinsecamente legato al logorio dell’anima, tanto a livello individuale quanto a livello collettivo: così quando una virulenta epidemia prende forma sfregiando il volto candido della società, il pensiero va alla sfera religiosa. L’intero corpo sociale è corrotto: l’apocalisse è alle porte.

Nel corso dei secoli e con l’avanzare dei progressi in ambito medico e nella comprensione delle dinamiche che regolano il funzionamento del corpo umano, anche la rappresentazione della malattia assume nuove forme: agli scheletri che invadono le città e ai corpi stilizzati e grottescamente deformati si sostituiscono ritratti incentrati maggiormente sull’individualità umana e su una sfera più intima e partecipe della malattia, ma allo stesso tempo sempre più astratta e artefatta.

Ai corpi mutilati e segnati dal morbo si sostituiscono membra pallide e affaticate, visi contratti e sofferenti, ma allo stesso tempo sereni e composti, rivolti verso una dimensione interiore e spirituale che ha a che fare con una dimensione per la quale il patimento terreno è solo un rituale di preparazione penoso ma necessario. A rimanere è il legame tra corpo e spiritualità, tra malattia del corpo e qualità morale, ma soprattutto l’impellente necessità di dare senso all’imprevedibile e all’inspiegabile e di mettere ordine nella grande stanza sporca e disordinata della malattia e dell’afflizione.

Carmen Lomas Garza, La Curadera, 1989.

Durante il Rinascimento, l’aumento dell’interesse per la medicina coincise con un maggior numero di illustrazioni cliniche di malattie come la sifilide. L’incisione Sifilide di Albrecht Dürer del quindicesimo secolo documenta meticolosamente i sintomi sfiguranti della malattia sulle forme umane. Tuttavia, nell’epoca romantica del diciannovesimo secolo, malattie come la tubercolosi erano state glamorizzate ed estetizzate. Il pallido e luminoso “aspetto consunto” era apprezzato nei ritratti, visto come un segno di sensibilità artistica.

-Leila T. Fard, Depictions of Disease in Art History

La rappresentazione della tubercolosi (TB) nell’arte del XIX secolo fa parte di una più ampia rappresentazione della malattia presente nella cultura europea di questo periodo. La tubercolosi era la seconda causa di morte nel mondo occidentale all’inizio del XIX secolo, un periodo di grandi cambiamenti sociali e industriali associati ai concetti di romanticismo e, più tardi, al realismo. Come è stato osservato, “il malato di tubercolosi si trovava a cavallo tra due opposizioni: la malattia invalidante e il fascino romantico, incarnazione sia della sofferenza fisica che della forza spirituale.

Le immagini artistiche e le storie di bellezza della consumatrice erano comuni nella letteratura, nell’arte e nella cultura del XIX secolo. […] Entrambe le tendenze, romantica e realista, ritraevano la tubercolosi come malsana, tragica e misteriosa, ma anche un’occasione per accedere a sentimenti profondi e ideali puri, in contrapposizione alla società sempre più materiale e industrializzata del loro tempo. L’enfasi era posta sulla natura del declino fisico e sul significato culturale della malattia. La tubercolosi divenne anche una causa e una metafora della politica sessuale e sociale del XIX secolo. L’atteggiamento nei confronti della tubercolosi faceva parte dell’antipatia dei Romantici nei confronti di una realtà dolorosa: la morte perde “la sua bruttezza primordiale, la sua corruzione, il suo decadimento e il senso di perdita.

– K. Omukisa, Exploring Historical Representations of Illness in Art, 2024

Corpi malati, deformi e mutati: lo stato del cinema

Frame di Four Unloved Women, Adrift on a Purposeless Sea, Experience the Ecstasy of Dissection di David Cronenberg
David Cronenberg, Four Unloved Women, Adrift on a Purposeless Sea, Experience the Ecstasy of Dissection, 2023

La fascinazione nei confronti delle possibili rappresentazioni del corpo e delle malattie viene ben presto riversata dalle arti visive al cinema delle origini, in particolare nel cinema di tipo documentaristico: il lavoro di Roberto Omegna è uno dei primi esempi del legame complesso tra cinema e scienza, in particolare il documentario La neuropatologia realizzato con il neurologo Camillo Negro all’ospedale Cottolengo rappresenta uno dei primi esempi di cinema impiegato a scopo di documentazione medico-scientifica. Nel corso dei decenni si è assistito all’emergere di una nuova sensibilità nei confronti del paziente e delle diverse patologie, intercettata e registrata dal cinema documentario: basti pensare a lavori recenti come Notre corps di Claire Simon, dove la regista segue la vita all’interno dei dipartimenti di ginecologia dell’ospedale Tenon di Parigi trasformando la narrazione della malattia in racconto politico che rimette al centro sia il paziente e la sua umanità sia la complessità di un sistema e dei meccanismi burocratici che regolano la vita di un’intera comunità.

Ma è nel cinema di finzione che si rintracciano le reinterpretazioni più interessanti della nozione di malattia e del suo legame con la società in cui si innesta: il corpo e le sue ossessioni che deflagrano, si deformano, si cristallizzano e diventano parte di un grande e grottesco oggetto decorativo. Il corpo e le sue malattie, dalle più antiche a quelle frutto del contemporaneo, diventano i vocaboli di una nuova iconografia in cui entrano in gioco nuovi fattori sociali e tecnologici.

David Cronenberg è uno dei maestri nella rappresentazione di corpi mutati dalla contemporaneità, di organi porosi che si fondono con schegge impazzite di tecnologia, della labilità del confine tra umano, non-umano e sovraumano. Come le quattro statue anatomiche in cera del Settecento che galleggiano in mezzo al mare in Four unloved women, adrift on a purposeless sea, experience the ecstasy of dissection (Quattro donne mai amate, alla deriva su un mare senza scopo, sperimentano l’estasi della dissezione). Nelle quattro Veneri sospese nell’acqua, con i volti serenamente composti e le viscere esposte, si riassume tutta la poetica del cinema di David Cronenberg, il quale traccia la linea tra antico e contemporaneo, tra passato e futuro, tra morte e vita e tutto ciò che va oltre. Quei quattro corpi di cera sono senza vita, ma lo sguardo della telecamera li infonde di un sentimento mistico ed erotico: oltre alla precisione anatomica degli organi interni esposti al sole c’è qualcosa di più, una filigrana impalpabile di mistero che avvolge i corpi e il loro decomporsi. Come spiega Gianni Canova, questo stato liminale è presente anche in altre opere di David Cronenberg:

Cronenberg invece rende tutto ancora vivo: prima accarezza quasi pudicamente i capezzoli dorati, le labbra socchiuse, i piedi minuscoli e aggraziati delle quattro veneri di cera esposte in mostra, ma poi sale in plongé sopra i loro corpi inanimati e disvela ghiandole, vasi sanguigni, tessuti irrorati da capillari rossi e blu. Non può non venire in mente Crimes of the Future (2022): il dolore fisico è scomparso, i corpi non lo sentono più. È una società anestetizzata quella che affiora dal buio denso e viscido in cui galleggia l’ultimo film del regista canadese.

Nella transizione verso il post-umano i corpi hanno acquisito la liberazione dal dolore (come dalle malattie e dalle infezioni) ma al tempo stesso hanno perso la facoltà di “sentire”. Neanche il sesso funziona più: i corpi mutanti che popolano il film non sanno più godere del contatto fra le labbra, le lingue, la pelle e gli organi “visibili” che prima della mutazione generavano il piacere. Ora l’ultima residua possibilità di “sentire” (o la prima nuova forma del “sentire” mutato) è legata alla lacerazione della carne, e alla capacità di incidere i corpi, di tagliarli, bucarli, aprirli e sviscerare – letteralmente, ancora una volta – la loro bellezza interiore.  «La chirurgia è il nuovo sesso», si dice a un certo punto.

– Gianni Canova, Gloria e bellezza alla vita interiore

E non è un caso che nella maggior parte dei casi siano i corpi femminili a essere posti al centro dell’indagine del body horror, in quanto è proprio il corpo delle donne ad essere posto sotto maggiore scrutinio dall’occhio chirurgico e spietato di una società impegnata a fabbricare immagini di donne perfette e addomesticabili. La stessa società che conosce con minuzia di particolari le parti di un corpo femminile da smussare, sezionare e sviscerare per renderle appetibili allo sguardo maschile che domina su di loro, ma allo stesso tempo rimane consciamente ignorante dell’anatomia e delle patologie femminili che continuano a venire sminuite, ignorate e derise.

Il body horror mette in scena queste dolorose contraddizioni e le cicatrici concrete che lasciano sul corpo delle donne: basti pensare al recente The Substance di Coralie Fargeat, dove il corpo di una donna che invecchia equivale a una perdita non solo di prestigio, ma di umanità vera e propria. Se non corrispondi allo standard dominante di bellezza non esisti, sei rilegata al regno dell’invisibile: così Elizabeth Sparkle, celebrità sul viale del tramonto la cui carriera è in mano a grotteschi produttori televisivi ossessionati da corpi giovani e tonici, si trova intrappolata in un circolo letale che alimenta l’odio e il disgusto per se stessa, dove la versione più giovane di sè cannibalizza il corpo della vera Elizabeth, rubandole tempo e carne dalle ossa fino alla distruzione totale.

Il deterioramento dei corpi in The Substance è il segno di una malattia auto-inflitta: è la stessa Elizabeth a decidere di assumere la sostanza ed è sempre lei, almeno sulla carta, a gestire spazi e tempi necessari per l’equilibrio tra le due versioni. Ma è una violenza autoimposta di cui non è mai davvero padrona, in quanto l’odio nei confronti di se stessa è un sentimento appreso negli anni, uno schema di pensiero interiorizzato e inoculato al suo interno da una società ossessionata dalle immagini e dalle apparenze, che capitalizza sul corpo delle donne per poi disprezzarlo quando non serve più. Ma se The Substance mostra le trappole del cosiddetto corpo perfetto e la fobia della vecchiaia, altri film invece esplorano altre derive della società delle immagini e della capitalizzazione della malattia: è il caso di Sick of Myself di Kristoffer Borgli.

Sick of myself: la patologia come auto-rappresentazione

Confronto tra dipinto The Sick Girl e Sick of Myself
Sick Girl di C. Krohg (1881) e Sick of Myself (2022) dir. K. Borgli

Il titolo norvegese, Syk Pike (La ragazza malata), è condiviso da un dipinto di Christian Krohg ed è spesso erroneamente attribuito al dipinto di Edvard Munch La bambina malata. Il deterioramento auto-inflitto di Signe, che comporta non solo la comparsa di macchie rosse sulla sua pelle, ma anche la caduta di capelli sulle mani e, infine, la fuoriuscita di sangue dalla fronte, si svolge su uno sfondo elegante e incontaminato di alta arte. Una scena particolarmente cruenta è girata nel Museo Vigeland, mentre una folla di statue di marmo lucido la osserva.

«C’era qualcosa in queste statue grigie e secolari [di] corpi ideali e ben scolpiti e il fatto di averla in mezzo a tutto questo in una campagna di marketing superficiale per un marchio di moda che cerca di vantarsi della sua inclusività e apertura mentale”, dice Borgli. Aggiunge che i social media hanno trasformato il modo in cui la malattia viene percepita nella cultura tradizionale. “Ora non è più necessario avere la delega di un grande artista. Ci sono i social media e tutti questi canali, dove puoi trasformare la tua malattia in una storia».

– K. Borgli, intervista di Miriam Balanescu per AnotherMag

Sick of Myself di Kristoffer Borgli racconta l’ascesa/declino di Signe: due percorsi che non si susseguono in un ordine cronologico lineare ma viaggiano parallelamente, in quanto l’affermazione sociale di Signe coincide con il disfacimento intenzionale e sistematico delle sue condizioni di salute. Sofferente per la carriera sempre più florida del fidanzato Thomas nel campo dell’arte contemporanea, Signe ricorre a metodi sempre più estremi per mantenere i riflettori su di sè. Un giorno decide di ordinare, con l’aiuto di un complice, un farmaco dal dark web che provoca delle gravi eruzioni cutanee. Per Signe è la chiave del successo: costruisce una narrazione intorno alle sue deformazioni autoindotte inventando la storia di una malattia rarissima che l’ha colpita improvvisamente e senza cause note.

Signe riesce a uscire dal tanto temuto anonimato e a finire sulle copertine delle riviste patinate, nei talk show, sui quotidiani, sulle homepage dei siti online e dei social media. Diventa il fenomeno del momento, simbolo di valori nobili come il body positivity, l’importanza di ridefinire i canoni estetici dominanti e di includere la diversità all’interno della norma. Ma in cosa consiste davvero la malattia di Signe? Dove si tracciano i confini tra ciò che è accettabile e inaccettabile, tra normale e patologico, tra rappresentabile e irrappresentabile?

La patologia di Signe non è di tipo fisico, anche se lo diventa manifestandosi in modo tangibile attraverso l’abuso del farmaco: il malessere della giovane norvegese risiede nella sua disperata ricerca di attenzioni, di riconoscimento, di una qualsiasi forma di celebrità. Ma in una società cannibale che si nutre di malattie e di disgrazie, che sfrutta e consuma fino all’osso qualunque tematica per poi gettarla nel dimenticatoio per passare al prossimo tema su cui capitalizzare, anche il corpo martoriato di Signe è destinato a essere sorpassato nella homepage delle testate principali.

E a quel punto nemmeno la verità fa notizia, perché la vera malattia di Signe è troppo dura da digerire, più difficile da guardare rispetto a un volto sfigurato e ricoperto di garze, in quanto è un male frutto del ventre della società contemporanea, avvelenata dallo stesso narcisismo e dalla stessa vacuità di Signe ma incapace di ammetterlo a se stessa. Una verità troppo sgradevole da ricoprire con altre narrazioni da smontare al momento opportuno e con altri idoli di carta, con storie perfette di piccole e grandi imperfezioni seguite dagli annunci pubblicitari di rimedi miracolosi da pagare in comode rate.

Illustrazione di Lucia Amaddeo

Questo articolo fa parte della newsletter n. 45 – dicembre 2024 di Frammenti Rivista, riservata agli abbonati al FR Club. Leggi gli altri articoli di questo numero:

Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori. Sostieni la cultura giovane, libera e indipendente: iscriviti al FR Club!

Segui Frammenti Rivista anche su Facebook e Instagram, e iscriviti alla nostra newsletter!

Sofia Racco

Classe 1999, una delle tante fuorisede in terra sabauda. Riguardo periodicamente "Matrimonio all'italiana" e il mio cuore è diviso tra Godard e Varda. Studio al CAM e scrivo frammenti sparsi in giro per il mondo.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.