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Boris Ryzhy

Boris Ryzhy, il poeta che dettava versi d’amore

Una vita angosciata, una poesia d'amore, quello impossibile e sofferto, che mischia il non detto all’esplicito. Questo è la storia di un poeta la cui scomparsa purtroppo fece poco rumore.

6 minuti di lettura

Se Boris Ryzhy fosse stato una rockstar, tutti avrebbero tirato in ballo la fantomatica “maledizione del Club 27”; nato negli Urali nel 1974, questo giovane astro della letteratura russa aveva scelto il mese di maggio dell’anno 2001 per togliersi la vita. Ventisette anni e alle spalle milletrecento versi di struggente intensità. Se Boris fosse vissuto nel difficile e tormentato mondo della musica e degli eccessi, i giornali avrebbero fatto a gara per contendersi le copertine o l’inaspettato inedito di un genio prematuramente scomparso. Ma Boris era un poeta e, come spesso accade, la sua scomparsa fece poco rumore, al pari della sua vita. Muore giovane chi è caro agli dei e, nel caso di Boris Ryzhy, la vita ha voluto che appartenesse per sempre all’illustre stirpe dei poeti. Perché, se è vero che la letteratura è in grado di creare una tregua alla morte, la poesia, allora, regala l’immortalità. Per sempre giovane, per sempre bello, per tutta la vita indescrivibilmente tragico.

Boris Ryzhy
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La storia di questo ragazzo dalla penna lieve si snoda e termina a Ekaterinburg, nel nord della Russia, tra industrializzazione spersonalizzante, delinquenza e lavoro sottopagato. I giovani si destreggiano tra piccoli furti e lavori occasionali, i delinquenti meno sbandati scontano la pena lavorando in miniera; si tratta di un’umanità disperata e sola, la prima, vera, fonte di umano contatto del timido Boris Ryzhy. Tali frequentazioni lasciano il segno, non solo sulla pelle ma nello stile, trasferendosi su carta sotto forma di parole gergali, espressioni folkloristiche, detti della “mala”. La particolarità della sua poesia consiste anche in questo, nel non detto che si mischia all’esplicito, nell’estrosità degli accostamenti, nel saper osare in un mondo di omologazione.

«Da cinque anni ormai non sogni più
che scopi, ti svegli per la noia, vai verso
il gabinetto e – allo scopo di farti
la barba – infili il tuo proprio ritratto
nello specchio e indietreggi:
e questo chi sarebbe, chi è?
Magro, con la barba lunga. Sei tu!
Lo specchio di fronte, un labbro rotto,
i nervi a pezzi, ma sempre il bello,
l’altero e allegro Boris B. Ryžhj,
che cosa priva di gusto sarebbe, ora
tagliarsi le vene con un innocuo rasoio»

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La vita in salita è per Ryzhy fonte di angoscia e suprema tristezza, nodo impossibile da sciogliere perché destinato a stringersi sempre di più intorno al collo, proprio come la corda che agli albori dei Duemila tolse il respiro a chi di questa esistenza avvertiva il peso insopprimibile. E l’amore, quello impossibile e sofferto, è il cruccio più grande, il motivo dominante di quei componimenti che hanno fatto dire a Evgenij Rejn che Boris Rhyzy è stato, davvero, il più grande talento poetico della sua generazione. Visionario e intenso, spontaneo e drammatico.

«Dettami versi d’amore
Sii d’animo un po’ insincero.
Il mio cuore cattivo e freddo
Fa esplodere con un sorprendente verso.
Raccontami semplici parole
Fa che mi parta, girando la testa».

Ryzhy canta l’eterno, la vita che sfugge, il sentimento che si spegne:

«Portami lungo viali vuoti,
parlami di qualche sciocchezza,
pronuncia vagamente un nome.
I lampioni piangono l’estate.
Due lampioni piangono l’estate.
Cespugli di sorbo. Una panchina umida.
Amore mio, resta con me fino all’alba,
poi lasciami.
Rimasto come un’ombra offuscata,
vagherò qui ancora un po’,ricorderò tutto,
la luce accecante, il buio infernale,
io stesso fra cinque minuti sparirò».

iraida2.wordpress.com
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Racconta la Russia e l’amore per la propria terra, lo smarrimento, il dolore e lo stupore di essere uomini in un mondo con cui occorre costantemente fare i conti. Quando ci ha lasciati, Boris ha scelto di congedarsi con l’ultimo verso della sua poesia d’addio: «Io ho vissuto qui. Esercitando delle libertà alla morte, all’autunno e alle lacrime. Vi ho amati tutti. E sul serio». Ma occorrerebbe ricordarlo di più, con altre parole, ancora una volta sue:

«Una nave smaltata
L’oblò, il comodino, il letto.
Vivere è difficile e scomodo,
però è comodo morire.
Sto disteso e penso:
forse queste lenzuola bianche
hanno avvolto colui che oggi
se n’è andato all’altro mondo
Il rubinetto gocciola piano.
La vita scarmigliata come una puttana
appare dalla nebbia e vede
il letto, il comodino
Io cerco di sollevarmi un pò
Voglio guardarla negli occhi
Guardarla, mettermi a piangere
e non morire mai».

Perché la poesia non solo crea una tregua alla morte, ma a volte la supera. Nel sempre, e per sempre.

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Ginevra Amadio

Ginevra Amadio nasce nel 1992 a Roma, dove vive e lavora. Si è laureata in Filologia Moderna presso l’Università di Roma La Sapienza con una tesi sul rapporto tra letteratura, movimenti sociali e violenza politica degli anni Settanta. È giornalista pubblicista e collabora con riviste culturali occupandosi prevalentemente di cinema, letteratura e rapporto tra le arti. Ha pubblicato tra gli altri per Treccani.it – Lingua Italiana, Frammenti Rivista, Oblio – Osservatorio Bibliografico della Letteratura Otto-novecentesca (di cui è anche membro di redazione), la rivista del Premio Giovanni Comisso, Cultura&dintorni. Lavora come Ufficio stampa e media. Nel luglio 2021 ha fatto parte della giuria di Cinelido – Festival del cinema italiano dedicato al cortometraggio. Un suo racconto è stato pubblicato in “Costola sarà lei!”, antologia edita da Il Poligrafo (2021).

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