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Calibano e la strega di silvia federici

Di macchine, corpi e donne: su «Calibano e la strega»

In che modo la produzione capitalistica influisce nella costruzione dell’identità di genere? Pubblicato per la prima volta nel 2004, «Calibano e la strega» di Silvia Federici è ormai un classico della filosofia femminista.

13 minuti di lettura

Mimesis ha ripubblicato due anni fa il testo di Silvia Federici, Calibano e la strega: le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, un classico della filosofia femminista, uscito per la prima volta nel 2004. Il saggio s’inserisce nella complessa vicenda dei rapporti fra femminismo e marxismo, che, come scrive Anna Curcio in Introduzione ai femminismi (Deriveapprodi, 2019), ebbe negli anni ’60 del secolo scorso il suo momento apicale, per poi tramontare, sull’onda del decostruzionismo e dell’ermeneutica, nei decenni finali del secolo ed infine ritrovare vita nuova con l’inizio del nuovo millennio, passando da strumento metodologico adottato per studiare il rapporto fra donne e capitalismo, ad assetto teorico vero e proprio, in grado di indicare il processo attraverso il quale il modo di produzione capitalistico influisce nella costruzione dell’identità di genere.  

Federici, «Calibano e la strega», il Capitale

Silvia Federici è nata a Parma nel 1942, ma, giovane, nel ’67, si è spostata in America, dove ha studiato filosofia a Buffalo. Ha insegnato in Nigeria per tre anni, per poi tornare in America, a New York, dov’è ora attualmente professoressa emerita. Ha fatto parte del Collettivo femminista internazionale, con il quale, a metà degli anni ’70, ha lanciato la campagna Wages For Housework, rivendicando un salario per il lavoro domestico.

La stesura di Calibano e la strega, ampliamento di un progetto precedentemente avviato con Leopoldina Fortunati, femminista i cui studi sulla riproduzione della forza-lavoro domestica ebbero grande influsso negli anni ’80 e ’90, come spiega Federici, è stata suscitata dagli eventi vissuti nella Nigeria degli anni ’80. È qui che, a detta di Silvia Federici, in un momento di crisi politica ed economico-finanziaria, cominciano a verificarsi fenomeni – vagabondaggio, povertà, misoginia, violenza – analoghi a quelli che hanno caratterizzato l’Europa del passaggio dal feudalesimo al capitalismo, l’Europa, più strettamente parlato, dei secoli 1450-1650.

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«Calibano e la strega», un testo politico

La tesi di Calibano e la strega, pertanto, muove da esigenze pratico-politiche: quelle di individuare, nel momento di una nuova forma di assesto del modo di produzione capitalistico – registrato in Nigeria in quegli anni – l’origine storica e materiale di tale fenomeno, ossia il motore capace non solo di innescarlo, ma anche di mantenerlo. Quella che Marx chiamava accumulazione primitiva – il processo di raccolta della base di ricchezza che permette di avviare la catena produttiva capitalistica – diviene in Federici il momento genetico che, anatomizzato, permette di rilevare la struttura (logica e storica) del capitalismo. Su questo punto s’innesta la filosofia femminista: è la riproduzione della forza-lavoro – la procreazione – che funge da base di questo processo. È la donna che – continuamente, dietro le porte delle nostre case, accudendo e crescendo la prole – produce le braccia che il mercato, nella fabbrica, sfrutta.

Accumulazione primitiva

Siamo con, ma soprattutto, oltre Marx. In Marx l’accumulazione primitiva – equivalente in economia al “peccato originario” in teologia, come scrive nel ventiquattresimo capitolo del Capitale – è un momento puntuale nel tempo, concretizzatosi nel processo di privatizzazione ed espropriazione dei contadini delle terre inglesi a partire dal XIII secolo attraverso le enclosures, le recinzioni che delimitavano e assegnavano un proprietario a beni precedentemente di appartenenza comune. Un processo che ha trovato una forte spinta, inoltre, nel trasporto e utilizzo degli schiavi delle piantagioni della neoscoperta America.

In Silvia Federici, questo il punto, tale processo è continuativo: l’accumulazione si perpetua ogni giorno tramite il lavoro, non retribuito, della donna, che, come detto, accudisce e alleva i figli, future braccia, gambe, muscoli da trasformare in forza-lavoro. Di qui la necessità di andare oltre Marx, di aggiornarlo, di includere sotto la lente del metodo materialistico anche quei fenomeni storico-sociali rimasti nel silenzio che hanno creato la figura della madre e “donna procreatrice”. Tra questi, la caccia alle streghe.

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La grande caccia alle streghe in Europa

La tesi di Federici in Calibano e la strega è che la caccia alle streghe in Europa, che ha raggiunto la sua acme tra la fine del sedicesimo e la metà del diciassettesimo secolo, abbia rappresentato il tentativo perpetrato dalle forze statuali di addomesticare la donna, renderla cioè adatta alla mansione di procreare e allevare la prole. Chi è, difatti, la strega? La strega è una vecchia: incapace di generare; è una mendicante: povera, fa morire ciò che tocca; nondimeno è lasciva e lussuriosa: cerca il rapporto fuori dal matrimonio, dalla famiglia, distrae la forza-lavoro; la strega pratica la magia e vola sulla scopa: ha un corpo non localizzabile e cioè non addomesticabile ai ritmi del lavoro richiesto dal capitalismo. La strega non fa figli: è il contrario della forza generatrice. La strega è ciò che attenta all’ordine imposto dal capitalismo.

Con la barbarie dei roghi, con l’instaurazione di un vero e proprio regime del terrore, si sono erette attorno ai corpi delle donne barriere più impenetrabili di quelle che negli stessi anni recingevano le terre comunali. La caccia alle streghe […ha] distrutto i metodi che le donne possedevano per controllare la procreazione, denunciandoli come strumenti diabolici e istituzionalizzando il controllo dello stato sul corpo femminile, condizione necessaria del suo assoggettamento alla riproduzione della forza-lavoro.

La stregoneria pertanto non ha costituito, come si è spesso sostenuto, un fenomeno d’isteria di massa, di crisi collettiva, di follia partecipata, ma la stereotipizzazione – fatta col «sangue e col sudore», per citare di nuovo Marx – di ciò che andava escluso dall’ordine discorsivo e materiale capitalistico. Rovesciando tale immensa macchina di controllo messa in moto dallo stato in questi secoli, ecco che si ottengono le caratteristiche per così dire classiche della donna: pudica, umile, dedita alla cura, fedele, silenziosa. Un silenzio, sostiene Silvia Federici, imparato sul rogo.  

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Un corpo che non è ancora una macchina

Tale processo storico ha dei presupposti teorici. Secondo Silvia Federici, la Rivoluzione Scientifica avrebbe in qualche modo dato l’abbrivio e legittimato la visione meccanicistica della realtà. René Descartes pensa un individuo le cui membra, torso, nervi sono totalmente dissociati dalla mente – due sostanze separate, diceva lui – ma che, nondimeno, rimangono assoggettabili all’anima: ecco il corpo-macchina, governabile a piacimento regolandone le passioni e la carne. Thomas Hobbes, d’altro canto, sostiene che l’uomo è una bestia, e necessita pertanto di qualcuno o qualcosa che, dal di fuori, ne regoli e conduca gli istinti: ecco lo Stato, che ora s’infiltra e rende docili qui corpi meccanizzati nella visione cartesiana del mondo.

Sono i secoli dei teatri anatomici, delle dissezioni pubbliche, della scoperta di un corpo che può diventare oggetto; ma sono i secoli, anche, dei telescopi, delle grandi invenzioni tecnologiche, della vista che s’infiltra là dove prima c’era solo buio. Il mondo è una macchina, i cui ingranaggi sono macchine a loro volta, composti di macchine. Macchine di macchine. Ma, ecco il punto di Silvia Federici, qual è la prima macchina? L’utero femminile, ossia quella macchina che, se assoggettata, diviene capace di produrne infinite altre. La strega, d’altro canto, è quel corpo che non è ancora una macchina, e che pertanto va o riportato all’ordine, o escluso dal discorso.

Nella visione della filosofia meccanica si percepisce un nuovo spirito borghese che calcola, classifica, distingue e degrada il corpo solo per razionalizzarne le facoltà, mirando non solo a intensificarne l’assoggettamento, ma a massimizzarne l’utilità sociale […]. Lungi dal proporre la rinuncia al corpo, i teorici meccanicisti cercano di concepirlo in modo da far sì che le sue operazioni siano comprensibili e controllabili. Di qui il senso di orgoglio (invece che di commiserazione) con cui Descartes insiste che “questa macchina” (come costantemente chiama il corpo nell’Uomo) è solo un automa, la cui morte non merita più compassione del rompersi di un arnese.

La caccia alle streghe, pertanto, è il riflesso del grande tentativo di creare un ordine – sociale, culturale, corporeo – adatto ai ritmi della produzione capitalistica, capace di sostentarla. Un ordine che trova nell’abolizione coatta dell’universo magico rinascimentale, dove la figura del mago – in grado di controllare gli elementi naturali, vincolato da tempi che non sono quelli dell’orologio (il tempo del raccolto, il tempo della festa, il tempo della famiglia) -, così come quella della strega, vengono inglobate e schiacciate nella nuova razionalità meccanicistica.

Espropriazione

Quel fenomeno che, secondo Marx, caratterizza il processo di accumulazione primitiva – l’espropriazione dalle terre dei contadini inglesi – si traduce in Federici in un’altra equivalenza: terra=corpo. È il corpo femminile, pre-capitalistico, ad essere espropriato dalla donna stessa; è il suo utero, ciò che di più intimo le appartiene, che diviene ora bene privato asservito ai fini della riproduzione.

Perché lo stesso rapporto che il capitalismo stabiliva tra terra e lavoro cominciava anche a regolare quello tra il corpo e la capacità lavorativa. Mentre il lavoro era posto come una forza dinamica, capacità infinita di sviluppare ricchezza, il corpo era visto come materia inerte e sterile che solo gli impulsi della volontà potevano muovere, in un rapporto simile a quello instaurato dalla fisica newtoniana tra massa e moto, dove la massa tende all’inerzia in assenza di una forza a essa applicata. Come la terra, il corpo doveva essere coltivato e anzitutto spezzato perché rilasciasse i suoi tesori nascosti. Esso infatti è condizione dell’esistenza della forza-lavoro, ma ne è anche il limite, in quanto è il primo elemento di resistenza alla sua erogazione. Non bastava quindi stabilire che il corpo in sé non aveva alcun valore: il corpo doveva morire perché potesse esistere la forza-lavoro.

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Giovanni Fava

25 anni; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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