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Baruch Spinoza

Che cosa può un corpo? Spinoza e il divenire acefalo

Secondo Spinoza, mente e corpo sono di per sé irriducibili: un'idea o una mente può agire solo e soltanto su un'altra idea, un corpo solo e soltanto su un altro corpo, eppure non sono mai in contraddizione. Ma questo com'è possibile?

6 minuti di lettura

Nello Scolio alla seconda proposizione della terza parte dell’Ethica, Spinoza scrive: «nessuno, […] fino adesso, ha conosciuto la struttura del Corpo tanto accuratamente da poter spiegare tutte le sue funzioni». Poiché riferiamo alle libere decisioni della mente le azioni che il nostro corpo esercita, cioè perché cadiamo nella superstizione del libero arbitrio magistralmente criticata da Spinoza nell’Appendice alla prima parte, nascondiamo a noi stessi non solo la fabrica corporis, la struttura del corpo, ma anche le sua capacità. In qualche modo la vera potenza del corpo, che cosa esso possa fare, ci sfugge: l’automatismo corporeo, l’abitudine che rende atti a qualcosa, il sonnambulismo stesso, in quanto stato di cessazione dell’attività cosciente, ci mostrano come «lo stesso Corpo, in base alle sole leggi della natura, è capace di molte cose che la sua stessa Mente ammira».

Ma come è possibile giungere all’esperienza acefala del corpo, farsi, nei termini di Gilles Deleuze e Félix Guattari, un Corpo senza Organi, ovvero che non risponda al triplice giudizio di Dio (organizzazione degli organi, significazione e soggettivazione) ma che si libri mostrando la sua nudità disorganizzata, la sua pienezza asignificativa, la sua legge di natura?

Il corpo moralizzato

Nell’ontologia spinoziana la separazione fra mente e corpo è netta: la proposizione da cui prende avvio lo scolio sopraccitato recita: «né il Corpo può determinare la Mente a pensare, né la Mente può determinare il Corpo al movimento o alla quiete, né qualunque altra cosa (se ve ne è una)». Mente e corpo sono di per sé irriducibili: un’idea o una mente può agire solo e soltanto su un’altra idea, un corpo solo e soltanto su un altro corpo; rispettivamente sono l’uno un modo, una modificazione dell’attributo pensiero, l’altro un modo dell’attributo estensione. Dunque, un pensiero o una volontà non ci faranno mai camminare, così come un urto cutaneo o una scottatura non ci darà mai da pensare direttamente.

Eppure, nonostante la differenza di genere che impedisce l’azione dell’estensione sul pensiero e viceversa, mente e corpo non sono mai in contraddizione: «l’ordine e la connessione delle idee è lo stesso che l’ordine e la connessione delle cose», recita la Settima proposizione della seconda parte dell’Ethica. Il problema per Spinoza non è la loro assonanza, ma la confusione che induce a ritenere che la mente agisca direttamente sul corpo, ovvero la risoluzione della loro differenza nella priorità e conseguente riduzione dell’estensione nel pensiero (o viceversa).

La legge di natura cui soggiace il corpo non è nascosta dalla mente in quanto tale, ma dall’interpretazione finalistica della natura, la quale ci induce a crederci liberi e a ritenere che la mente diriga il corpo. «Gli uomini credono di essere liberi per la sola ragione che sono consapevoli delle proprie azioni e ignari delle cause dalle quali sono determinati»: poiché sappiamo di volere ma non sappiamo la causa della nostra volizione, riteniamo che tali volizioni siano incondizionate; non solo, ma conoscendo innanzitutto soltanto le cause finali delle cose, riteniamo che la natura intera risponda a tali cause e che un reggitore celeste le abbia disposte conformemente a noi. Così, per citare Friedrich Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, produciamo un mondo vero dietro al mondo vero, un supporto teleologico per le nostre moralizzazioni. Su questo terreno diventa possibile far interferire i piani, confondere gli attributi di Dio.

L’anima ammira le azioni del corpo

Confondere i piani, in un certo senso, non significa soltanto misconoscere l’attività del corpo, ma anche l’attività reale della mente. Ciò che Spinoza intende nel dire, che la mente ammira le azioni del proprio corpo sonnambolico, è che il corpo può agire (e nei fatti agisce) senza la costante sorveglianza della mente e dell’illusione della volontà. Bizzarria barocca, che vede nel corpo un automa spirituale: la superstizione del libero arbitrio induce a pensare che il nostro corpo possa agire soltanto secondo le disposizioni e le volizioni della mente, male interpretando così le azioni reali del corpo, nascondendone le leggi, moralizzandone gli atti, organizzando metafisicamente il corpo. In questo senso il corpo interpretato come mezzo della mente, il corpo socratico che è in carcere perché l’anima l’ha deciso, il corpo della conoscenza e della morale è in opposizione al Corpo senza Organi (CsO), in quanto disorganizza quell’organizzazione degli organi che è stata impressa dalla superstizione del libero arbitrio, dalla sua ermeneutica che intende il corpo come organismo razionale, passibile d’essere agito dalla mente.

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Ciò che ne è del corpo fatto organismo è un’immagine rovesciata, moralizzata del CsO, una stratificazione su questo corpo liscio, senza significati, senza coscienza; il corpo moralizzato è orientato verso la mente non in quanto idea del corpo, ma in quanto polo orientativo che dispone conformemente ai suoi fini gli altri organi. Non la mente come idea del corpo, dunque, ma la mente come dispositivo di inversione delle cause in fini. Per conoscere l’attuale struttura del corpo è necessario perciò tagliare la testa al corpo, divenire acefalo; ma ciò non significa gettarsi nell’irrazionalità delle passioni, né desertificare il corpo o umiliare la mente, bensì ridefinire la differenza fra corpo e mente, ridisporre il corpo come singolarità, potenziale amorale.

Come far parlare il corpo (ovvero come si taglia la testa al corpo)

Vi sono stati in cui il corpo esprime la sua legge in maniera privilegiata, ovvero stati in cui la coscienza non subentra come interprete: Spinoza cita, come caso esemplare, il sonnambulismo ma si potrebbe aggiungere l’ebrezza, il riflesso, le malattie nervose, l’oblio sessuale, in generale gli stati di dissociazione in cui l’attività mentale è troppo fioca per riconvergere su se stessa gli atti del corpo, per orientarli teleologicamente. Tali stati sono liminali, in quanto appartengono alla fabrica corporis, ne esplicitano il suo funzionamento, le sue leggi, ma la loro esperienza non è quella del corpo fatto oggetto di conoscenza, ovvero del corpo come organismo, i cui organi sono gerarchizzati dal cervello in direzione del cervello sull’asse del corpo eretto, per dirla con Pierre Klossowski.

L’esperienza limite

Il paradosso dell’esperienza liminare di questi stati si comprende subito: insistiamo sulla cessazione dell’attività cosciente, ma quale coscienza, allora, potrebbe studiare la struttura del corpo in questo stato, derivarne le leggi, definirne le funzioni? Chiaramente l’esperienza liminare non deve necessariamente tradursi in pensiero logico – una cesura separa la comunicabilità razionale del coito dall’atto- cionondimeno, se è possibile conoscere il corpo, dev’essere possibile una sua comprensione pensante, pur facendo a meno del linguaggio quotidiano.

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Nietzsche è attanagliato da questo problema: le forze si contendono il suo corpo ondivago, preso dalla cefalgia e poi ricacciato a galla, nel fuori dei segni quotidiani, laddove è possibile dare voce alla cefalgia, scrivere della lotta intestina degli affetti, cerebralizzarli, farli parlare secondo il linguaggio della coscienza. Come far parlare il corpo, il Corpo senza Organi, senza sottometterlo al ruolo di supporto della coscienza, come non tradire la molteplicità degli affetti con l’identità psicologica?

Liberare il corpo

Non si può certo parlare normalmente, come se non si fosse sull’orlo della malattia, di nuovo, dopo aver esperito una certa Stimmung, una tonalità emotiva liminare. Per questo la biografia di Nietzsche è un andirivieni di décadence e sanità, dove ogni barlume di vigore e lucidità, è usato per riacciuffare il senso della malattia, per dar voce a quelle forze che l’hanno stritolato. Eppure, questa voce che sembra parlare la lingua istituzionalizzata della filosofia, della fisiologia, della psicologia non è la voce della mente, del corpo moralizzato, bensì ne è il simulacro che lascia mormorare la cefalgia. In altre parole, Nietzsche riesce a far parlare gli affetti contro la mente superstiziosamente intesa, senza riordinare il corpo e le sue lotte in conformità con la mente.

È chiaro che nessuna intensità potrà mai parlare senza mente (per Spinoza è ancora più chiaro, giacché mente e corpo sono lo stesso): cionondimeno, per giungere al corpo, bisogna evitare di far interferire i piani, spogliarsi delle superstizioni finalistiche, dell’illusione della libertà. Srotolare i piani, destratificare gli strati, farsi CsO, significa istituire la sana differenza fra corpo e pensiero, sbrigliare la vita dalla conoscenza moralmente intesa. Il nemico che Spinoza, Nietzsche, Deleuze e Guattari individuano, non è ovviamente il pensiero, né la mente, ma una certa organizzazione del pensiero, la conoscenza teleologicamente orientata che confonde gli attributi e mischia i modi.

La mente, non più modello degli affetti né radice che innerva il corpo, può esser definita ecologica, in quanto cartografia della molteplicità di forze che in esso si dimenano e che baluginano come idea nella mente, e il pensiero a cui dà vita non sarà certo un pensiero razionale, se con ciò intendiamo il pensiero teleologicamente orientato, bensì un pensiero acefalo, corporante, che ha negli affetti la sua origine e la sua destinazione.

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Mattia Brambilla

Sono laureato in filosofia presso l'Università degli Studi di Milano; amo il pensiero e le lettere, scrivo e mi diletto con gli scacchi.

2 Comments

  1. Tutto questo affascina ma è retrò, antico, come gli esperimenti scientifici del ‘600. Sta in una bacheca, sotto vetro, chiuso in una ampolla. Non ci riguarda più siamo massa deculturata e corpi asensibili. Sguardi vuoti viviamo solo per dare un senso alle cose che manipoliamo, mani agenti perpetuamente alle quali è attaccato lo strascico poliposo di un sacco di pelle dalle mille forme. Solo mani imitanti, e questo sarebbe il “fare”.

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