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Dietro ai fatti di Capitol Hill: lo spazio delle narrazioni alternative

Stiamo assistendo ad un rovesciamento nelle narrative del politico? Una riflessione a caldo sui fatti avvenuti a Capitol Hill

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Le immagini raffiguranti gli attacchi a Capitol Hill, a Washington, giunte nella serata del 6 gennaio è bene che rimangano a lungo nell’immaginario collettivo. Ciò che sembra mancare primariamente è la disponibilità di categorie concettuali o precedenti storici – l’ultimo episodio simile risale al 1814 – che permettano di analizzare lucidamente quanto accaduto. Un mescolarsi così fitto di forme carnevalesche e retorica sovranista, che in modo sempre più preoccupante strizza l’occhio alla melma più grumosa e stagnante dell’America bianca, non si era mai visto e non può di certo non lasciare sgomenti.

Senza ombra di dubbio, certo, ce la si sarebbe aspettata meno nitida l’inquietante nube che avvolge di nero il palazzo del Campidoglio statunitense, ci si sarebbe aspettato meno evidente lo stato di degrado in cui versa la democrazia d’oltreoceano. Ci si sarebbe aspettato un tentativo, anche solo accennato, di mascherare quell’abisso rappresentato dalla differenza di trattamento riservato ai rivoltosi del Capitol Hill rispetto ai protagonisti dei fatti del BLM. Erano attese immagini meno inquietanti e pietose in apertura di questo nuovo anno; ma le contraddizioni interne, specie quando lacerano in modo talmente profondo il tessuto sociale di un paese, non badano certo al correre del calendario e puntuali danno prova di se stesse – a certe latitudini in modo più spettacolarizzato che ad altre.

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Lo stato attuale del problema lascia di certo aperto lo spiraglio a numerose questioni. Qual è la responsabilità delle forze armate? Perché è più che legittimo aspettarsi che, a parità di circostanze, dimostranti di colore non avrebbero percorso più di pochi passi? Come è possibile che una democrazia talmente militarizzata sembrasse così accogliente e impreparata davanti lo scempio provocato da alcuni verso le proprie istituzioni? Se da un lato l’intensità con cui la maggior parte dei canali mediatici ha riproposto i volti, i gesti e i luoghi dell’evento sembra rispondere a questi interrogativi e asciugare le opportunità di dibattito e confronto, dall’altro la stessa lascia che affiorino silenziosamente domande che non possono trovare risposta nel frenetico movimento dell’informazione di massa.

Cosa allora veramente stupisce e lascia perplessi in questa vicenda? Per rispondere può essere opportuno prendere in prestito da Luciano Floridi (docente di Filosofia ed Etica dell’informazione presso l’Università di Oxford), un termine da lui stesso coniato nel 2013: onlife. Ci si renderà prontamente conto del gioco di parole cui il neologismo presta il fianco, trattandosi di fatto di un tentativo di lettura delle nostre quotidiane esistenze, alla luce del ruolo che su di esse esercita il mondo digitale, nella fattispecie, quello dei social media. «Onlife è questo: la nuova esistenza nella quale la barriera fra reale e virtuale è caduta, non c’è più differenza fra “online” e “offline”».

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In un’era in cui «reale e virtuale si (con)fondono», in cui conoscenza e competenze vivono la spasmodica condizione di esser fruibili ai molti e, al tempo stesso, di esser dai molti screditate e ridotte a valore di poco conto, si spalanca la possibilità di nuove narrazioni. Ed è allora che assistiamo attoniti al trionfo della dòxa (opinione) in ambiti niente affatto bisognosi di pressappochismo, all’improbabile futilità di ricerche e studi decennali, al livellamento generale dei saperi, alla confusione totale che segna il confine tra voci consapevoli e silenziose, e voci chiassose e, per lo più, totalmente inesperte.

Non desterà imbarazzo se poi il fenomeno raggiunge il punto di rottura nel momento in cui colui che possiede la voce più rumorosa, siede anche sul trono dell’Oval Office. La verticalità di un processo del genere – intendendo con ciò l’implicita autorizzazione dall’alto verso il basso a diffidare ad esempio dell’evidenza scientifica, a ricreare la propria versione dei fatti – acuisce in modo preoccupante la portata dello stesso, nonché la sua velocità di diffusione e radicamento nel tessuto sociale di una comunità (globale in questo caso) in preda alla più eminente fra le crisi delle certezze. Risulta quasi superfluo in questo caso riportare alla memoria il ruolo che gli interventi del presidente uscente Trump giocano in questo panorama, vedendolo di fatto ora impegnato a dissimulare o sminuire la tragicità del surriscaldamento globale, ora intento a proporre iniezioni endovena di amuchina, ora sprezzante nei confronti dell’autorità scientifica di turno.

Negli ultimi anni, ci siamo tutti più o meno tacitamente abituati – non solo a causa delle politiche d’oltreoceano, si intende – a episodi di questo tipo: alla trasversale vittoria dell’opinione in materia di inquinamento, di vaccinazioni, di etica pubblica. Ed ecco allora che si intravede una ragione scatenante, chiaramente concorrente e non unica, del prolificare di movimenti complottisti e negazionisti, dal “terrapiattismo” alle campagne contro Covid e vaccini, fino al caso in questione dello scorso 6 gennaio che ha visto tra i protagonisti i sostenitori della setta QAnon, fautori dell’ennesima nuova narrazione secondo cui a gestire gli equilibri mondiali vi sia un gruppo di pedofili profondamente avverso alla linea politica di Donald Trump.

Risulta evidente allora quanto pericoloso sia il tweet di un capo di Stato contro l’istituzione, contro gli apparati legislativi e giudiziari di cui egli stesso è garante. Risulta evidente come credere e far credere di aver vinto le elezioni, incitando e complimentandosi con questi gruppi per atti incivili e, fortunatamente, desueti per le democrazie contemporanee, non possa far altro che ampliare la forbice che separa la realtà dalla possibilità di reinventarla completamente.

D’altronde, che l’era dell’onlife e il caotico brulicare delle fake-news vadano così indissolubilmente di pari passo non è un corollario del problema in questione, ma ne costituisce l’assioma. Si potrebbe quindi affermare che i fatti di Capitol Hill non rappresentino altro che la punta dell’iceberg di una sovrapposizione di piani in cui esistenza fisica, profili social, fatti e narrazioni alternative finiscono per confluire in un unico contenitore.

Lorenzo De Benedictis

 


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Lorenzo De Benedictis

24 anni, da Siracusa. Da ingegnere fallito a studioso di filosofia incallito il passo è breve. L'unica cosa certa è che invecchierò pescando in un'isola greca sperduta

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