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Caravaggio, il genio del dilemma

9 minuti di lettura

Mano sul fianco, sguardo intento e carico di dubbio, incredulo. Il San Tommaso dipinto da Caravaggio è sferzato sulla fronte rugosa dal consueto, ma sempre straordinario, raggio di luce; con il dito della mano destra – una mano rozza, che conosce la fatica – tocca la piaga di Cristo, e attinge il mistero della Resurrezione.

Caravaggio
Incredulità di san Tommaso, Bildergalerie, Potsdam, 1600-1601.

Un altro quadro. La Vergine è morta. Pallida, gonfia, la sua sacralità pare cedere ad un senso di disfacimento che tutto coinvolge, la madre di Dio così come una mela bacata in una canestra di frutta. Attorno a lei, in un contesto dove prevale un colore rosso quasi ultraterreno, gli Apostoli hanno i visi contorti dal dolore, mentre la Maddalena nasconde le lacrime piegata su se stessa.

Caravaggio
Morte della Vergine, Musée du Louvre di Parigi, 1604-1606.

Terzo quadro: in una luce diafana, in uno spazio soffocante, si consuma il martirio di Sant’Orsola. Attila scocca una freccia, ma il suo viso è immediatamente turbato dall’ombra del pentimento. I tratti arcigni rendono quasi ossimorica la tragica consapevolezza dell’assassino. Davanti a lui Sant’Orsola accoglie in grembo la morte, quasi si trattasse di una gestante che partorirà, con il martirio, la propria santità. Dietro a sant’Orsola, una guardia spalanca la bocca, come trafitta dalla stessa freccia. Il volto, gli occhi persi nel vuoto, sono quelli di un morto, sono quelli di Caravaggio stesso, che con questa scena realizza il proprio ultimo capolavoro.

Caravaggio
Martirio di sant’Orsola, palazzo Zevallos, Napoli, 1610.

La descrizione di questi tre quadri permette di ammirare l’estrema ricchezza intellettuale e filosofica che sta dietro alla somma perizia tecnica delle opere caravaggesche. Il genio di Michelangelo Merisi stette nel rappresentare il dubbio, l’inquietudine, la crisi, attraverso la più fedele resa pittorica della realtà, mai giunta prima tanto in alto. La piaga di Cristo è dunque l’abisso dell’incertezza; le lacrime della Maddalena segnano il naufragio della speranza nella vita eterna, sono una riflessione, hic et nunc, sull’irrimediabilità della morte; l’espressione della guardia barbara è quella di chi si accosta personalmente alla proprio fine, è la trasfigurazione dell’artista.

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Non vi è autore più vicino a noi: nessuno come Caravaggio sa esprimere le lacerazioni dell’Io di fronte a domande senza risposta, nessuno sa cogliere l’ambiguità dell’adesione alla Fede, nessuno sa essere più indeciso di lui, di un’indecisione sublime. L’impossibilità della certezza è il pane quotidiano del pittore lombardo, formatosi prima con l’osservazione di artisti conterranei quali il Moretto e il Savoldo, con il loro universo dimesso, semplice, e poi a Roma, a contatto con l’arte accademica del Cavalier d’Arpino, cui per reazione inversa Caravaggio risponderà con uno sfacciato, a volte anche blasfemo, sperimentalismo.

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Merisi, genio errante (Roma, Napoli, Malta, Sicilia, di nuovo Napoli), dal carattere tormentato e aggressivo (“quest’uomo fu un assassino” disse di lui Stendhal, riferendosi all’arcinoto episodio dell’uccisione di Ranuccio Tommasoni, durante una rissa) seppe indagare sé e il mondo senza giungere ad alcuna meta definitiva, solo offrendo, ai suoi committenti, ai posteri, i frutti di un’arte irripetibile, tesa ad una ricerca del divino intima, sottile, per nulla incline a compiacere il proprio tempo e i suoi modelli.

Il Manierismo, ormai diventato un esercizio surreale di bravura, è giunto al capolinea: Caravaggio, uomo libero, non vi aderisce, sceglie di andare controcorrente. La sua arte è per la società di inizio ‘600 un pugno nello stomaco, un attentato al buon gusto, alla facciata artificiosa di un mondo in realtà corrotto. L’ironia e il dramma, la bestemmia e la preghiera, il popolo e l’elite: poli opposti che combaciano nelle tele caravaggesche, restituendo uno spaccato sconvolgente del reale e delle sue contraddizioni.

Negli stessi anni in cui Galileo, osservando la luna e le macchie solari, innalzava la Terra al cielo, Caravaggio rendeva invece più umano anche il Divino. Lo rendeva, addirittura, umile. La conversione di San Paolo è una semplice caduta da cavallo, il martirio di San Matteo, come dice Longhi, “un fattaccio di cronaca nera”. Il Cristo alla colonna, il Cristo tradito da Giuda, dall’amico, nell’orto degli ulivi, è un uomo sconfitto, che nessuno si aspetterebbe di veder risorgere nel terzo giorno. La profondità della visione teologica dell’artista sta nella sua adesione scettica, nel suo tormento esistenziale che lo fa credente ed apostata. Verrebbe quasi da dire che Dio è fatto così vicino perché intimamente sentito come troppo lontano.

Caravaggio
Cattura di Cristo, National Gallery of Ireland di Dublino, 1602

La mitologia, invece, è un gioco da non prendere troppo sul serio, un pretesto per continuare l’analisi delle vicende umane; i vari suonatori di liuto, frequenti nel periodo giovanile al contempo ritratti ed allegorie di una concordia universale che in età matura sarà scoperta irraggiungibile. Le creature di Michelangelo Merisi brancolano immerse nelle tenebre, esitanti e perplesse, ora trafitte da una luce redentrice, ora ricercandola invano, ora cedendo al buio che le divora. La mano di Lazzaro che, risorgendo, tenta di sfiorare un spiraglio luminoso, dando quasi l’impressione di volersi aggrappare ad esso, ultima speranza, è di un simbolismo struggente: pur conoscendo il passo evangelico, lo spettatore ha l’impressione di trovarsi di fronte ad una vita che se ne va via all’ultimo, piuttosto che ad una che rinasce. Tutto ciò anche grazie ad un’atmosfera particolarmente cupa e claustrofobica. Se il quadro, del 1609, dunque risalente al soggiorno siciliano, fosse in condizioni migliori, il gioco di luci sarebbe certamente straordinario. 

Resurrezione di Lazzaro, Museo Regionale, Messina, 1609.

La speranza in Caravaggio non è scontata, ma a vincere su tutto è la compassione per l’essere umano: persino gli aguzzini di San Pietro non fanno che obbedire a un ordine superiore, non vi è malvagità nelle loro azioni, ma ineluttabilità. L’uomo, misero, è travolto dal proprio destino, recita la parte di protagonista in un teatro mai così vero, accanto ad un fiore appassito o ad un frutto malato, che gli ricordano una fine sicura.

Caravaggio
Bacchino malato, Galleria Borghese, Roma, 1593-1594.

Agli inizi di un un secolo che sarà pirotecnico, fideista, Michelangelo Merisi è l’artista anomalo, colui che, disprezzato per secoli, comunica direttamente con noi, senza portarci nessuna verità assoluta ma consegnandoci la ben più preziosa grazia del dilemma, interrogando sé stesso e chi lo voglia ascoltare, ricordando che certe domande arricchiscono più di molte sentenze.

Michele Donati

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Redazione

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3 Comments

  1. […] In precedenza ha fatto capolino Narciso: la bellezza che si auto contempla, che crede forse di poter bastare a se stessa ma che è causa della propria rovina. Magistrali i versi di Ovidio (Metamorfosi, III, 413 sgg.), interessantissima la lettura del mito in chiave psicoanalitica. Tra le tele, possiamo citare Narciso al fonte (1600) attribuito da Roberto Longhi a Caravaggio. […]

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